Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film
“1962. A Firenze per vedere e girare l'eclisse di sole. Gelo improvviso. Silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Luce terrea, diversa da tutte le altre luci. E poi buio. Immobilità totale. Tutto quello che riesco a pensare è che durante l’eclisse probabilmente si fermano anche i sentimenti.” (Michelangelo Antonioni)
“L’hai visto L’eclisse? Io c’ho dormito. ‘Na bella pennichella. Bel regista Antonioni! C’ha un Flaminia Zagato, una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allunga’ il collo!” dice Bruno/Gassman a Roberto/Trintignant ne Il sorpasso, uscito lo stesso anno del film di Antonioni, il 1962. A parte il giudizio di Risi e altre sporadiche voci critiche, la critica Pauline Kael lo soprannominò “A qualcuno piace freddo” parodiando il titolo del film di Billy Wilder, L’eclisse è ormai ritenuto una delle opere più importanti della filmografia del cineasta ferrarese e uno dei tentativi più originali e interessanti di rinnovamento del linguaggio cinematografico, tanto che nel 2018 è stato inserito da BBC Culture nell’elenco dei 100 più grandi film di lingua non inglese. Ha ricevuto invece un’accoglienza piuttosto tiepida da parte del pubblico, non riuscendo mai a diventare un film popolare. Ultimo lavoro in bianco e nero di Antonioni, fotografato da Gianni Di Venanzo, è il terzo segmento, con L’avventura e La notte, del trittico esistenziale o della malattia dei sentimenti o dell’incomunicabilità, secondo le varie denominazioni. Tre film dalla forte omogeneità stilistica e tematica, di ambientazione borghese, dedicati al disagio esistenziale nella società del benessere economico, che sembrano dare ragione a Jean Renoir quando osservava che “un regista fa soltanto un film, poi lo spezza in più parti e lo rifà”. Sceneggiato dallo stesso Antonioni e da Tonino Guerra, il film ha un’esile consistenza narrativa, solo uno scheletrico intreccio senza progressioni, svolte o colpi di scena, che permette al regista di esercitare la programmatica esplorazione introspettiva dei personaggi e proseguire il percorso della sua ricerca formale. All’alba di un giorno di luglio, in una lunga sequenza contemplativa piena di silenzi, Vittoria (la formidabile Monica Vitti), una traduttrice, rompe dopo molti anni la relazione che la lega all’intellettuale Riccardo (l’impeccabile Francisco Rabal), figura opaca di amante-mentore, dicendogli che non lo ama più. Vittoria appare come una donna apatica, insoddisfatta, disillusa, colma di insicurezze e di molti “non so”, ma con un lato giocoso rivelato dall’episodio della danza in costume africano nell’appartamento della vicina di casa Marta (Mirella Ricciardi). Nel caos frenetico della Borsa di Roma, simbolo di un capitalismo cinico e rapace che è il bersaglio critico del regista, tra le grida convulse delle contrattazioni, Vittoria cerca inutilmente conforto nella scaramantica madre (una misurata Lilla Brignone), accanita giocatrice interessata unicamente all’andamento dei suoi titoli, e conosce il suo giovane broker di fiducia Piero, a cui un Alain Delon bene in parte presta tutta la sua fisicità. Per distrarsi dai pensieri negativi, “sola, stanca, avvilita, disgustata, sfasata” (così si autodefinisce), accetta l’invito dell’amica Anita (Rossana Rory) e fa un breve e piacevole viaggio a Verona sul piccolo aereo pilotato dal marito. Tornata nella sede della Borsa, durante una seduta ribassista in cui la madre perde 10 milioni, Vittoria incontra nuovamente Piero che comincia a corteggiarla. Narcisista e iperattivo, risoluto e ossessionato dalle donne e dal denaro, è il suo esatto contrario, “uno straniero”. “Mi sembra di essere all’estero”, dirà un giorno Piero, seduto a terra su una collinetta dell’EUR. “Pensa che strano. A me questa sensazione me la dai tu”, risponderà Vittoria. Il furto dell’auto del giovane e il successivo ripescaggio della macchina col cadavere del ladro dalle acque di un laghetto metteranno Vittoria di fronte all’arida insensibilità del rampante agente di cambio, preoccupato solo delle ammaccature della carrozzeria e dei fastidi burocratici. Ma l’attrazione fisica e la speranza di ritrovare con un altro partner quell’energia vitale che possa farla uscire dalla sua malinconica staticità prevalgono sull’iniziale resistenza della donna che cede alle sue insistenze. Dopo un pomeriggio trascorso nell’ufficio di Piero tra i giochi di un amore che non riesce a crescere (“Vorrei non amarti o amarti molto meglio”, ha confessato Vittoria a Piero qualche giorno prima, citando Dylan Thomas), in cui anche il sesso diventa un rimedio palliativo allo spleen, nessuno dei due si presenterà la sera all’appuntamento concordato, ultima pagina vuota del loro breve flirt estivo. Nei leggendari 7 minuti finali, in un silenzio cosmico interrotto solo dai rumori della strada, della natura e dal rarefatto sottofondo musicale di Giovanni Fusco, in assenza di voci umane, riappaiono al crepuscolo come in un loop del montaggio, privi dei due amanti, i luoghi solitari, le strade, i crocevia dei loro rendez-vous e delle passeggiate, dove tutto, esseri animati e cose, continua a fluire indifferente alla cessazione dei sentimenti, alla solitudine ontologica dell’uomo, l’infermiera che spinge la carrozzina col bambino, l’uomo sul calesse, il rivolo d’acqua, la staccionata, il fruscio delle foglie nel vento, il pezzo di legno galleggiante nel bidone, l’uomo col giornale che scende dall’autobus, finché sopravviene l’oscurità, si accendono le luci e si staglia sullo schermo il bagliore accecante di un lampione. L’eclisse si può definire un film letterario, nel senso che Antonioni non segue il tempo del racconto cinematografico tradizionale, che privilegia il ritmo e non ammette digressioni, ma sceglie un tempo narrativo diverso, interiore, analogo a quello di un romanzo, “accettandone la problematicità, le apparenti divagazioni, perfino le incertezze. La storia, intesa come serie di fatti, diventa così un pretesto per raccontare qualcosa che viene prima della storia, qualcosa che sta dietro i personaggi” (1). Anche la colonna sonora è considerata dal regista in modo nuovo, anticonvenzionale, antiretorico, non un mero accompagnamento sovrapposto alle situazioni del film per potenziarne la carica emotiva, “melodie come stampelle per immagini claudicanti”, ma parte integrante, strutturale, delle immagini cinematografiche. Antonioni ne fa un uso discreto, frammentario ne L’eclisse (e negli altri film della trilogia) utilizzando soprattutto rumori e suoni ambientali, “la musica delle cose”, come il rumore del ventilatore e dei tacchi nella sequenza d’apertura a casa di Riccardo o quello delle aste metalliche oscillanti al vento davanti al Palazzo dello Sport dell’EUR durante l’inseguimento del cane di Marta (2). Il regista non concede nulla alle aspettative ricreative dello spettatore e servendosi della macchina da presa come di un pennello mette in pratica con rigore assoluto il suo cinema minimalista di pura poesia visiva, il suo “neorealismo interiore” o, come amava definirlo, “ neorealismo senza bicicletta”, trovando nel muto paesaggio dechirichiano di grandi spazi aperti semideserti e algide architetture moderniste del quartiere dell’EUR lo specchio del vuoto relazionale dei personaggi. Premio speciale della giuria al Festival di Cannes, L’eclisse è un film a cui bisognerebbe accostarsi con lo stesso spirito con cui ci si accinge a guardare un quadro di Edward Hopper o a leggere una poesia di Samuel Beckett, è un’opera di speciale magnetismo figurativo la cui visione è un viaggio sensoriale in grado di lasciarci penetranti risonanze emotive e cognitive, simili ai “pensieri che giacciono spesso troppo profondi per le lacrime”.
(1) Fabio Carpi. Il film letterario. Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica, n.2, 1961, pp. 45-49, 112.
(2) Roberto Calabretto. Antonioni e la musica. Marsilio, 2012.
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