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L'eclisse

Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'eclisse

di pippus
10 stelle

“la vita è una lunga battaglia nelle tenebre”

                                                                Lucrezio

 

 

   Premessa 

 

Martin Heidegger identifica tra i sentimenti fondamentali dell’essere l’angoscia, uno stato d'ansia che si differenzia dalla paura in quanto, se quest’ultima è sempre riferita a qualcosa di tangibile, la prima è invece riferita al Nulla! Angoscia per il nulla, per niente in particolare, semplicemente l’angoscia di esistere. Come scrive il filosofo argentino Julio Cabrera, possiamo considerare Antonioni l’Heidegger del cinema, il regista dell’Essere, in quanto, se la quasi totalità dei film trattano argomenti tangibili e pratici - sia che si riferiscano a persone, situazioni o cose-, alcune sue opere (la trilogia e Deserto Rosso in particolare) rientrano tra i film filosofici per eccellenza, dove le tematiche sono volte a trasmettere gli stati d’animo dei personaggi afflitti o angosciati dal nulla e dal tutto sui generis, angosciati appunto dall’essere al mondo a dispetto, a volte, del loro status di benessere, sia di salute che economico. Paradossalmente è possibile il tormento dovuto alla presa di coscienza di non essere eterni, potenzialmente soggetti a ogni fragilità psichica e fisica in concomitanza con l’obbligo di esistere, dato che ormai si è nati. Per queste ragioni il regista filosofo per eccellenza non ha avuto vita facile, e alcune sue opere abbinarono i fischi al flop commerciale. Lo spettatore medio non era preparato (e anche in seguito non so se lo sia stato di più) ai suoi film apparentemente freddi e statici. Si andava al cinema di solito per provare altri tipi di emozioni, sia che si trattasse di film d’azione che meditativi - alla Bergman -, mentre la sua emotività velata intrisa di sentimenti a volte inconsci ma irrefrenabili, di espressioni silenziose ma eloquienti e, nel film in oggetto, di tutto ciò che si spegne nella turbata psiche della protagonista, appunto eclissata dal mal di vivere. Il titolo è infatti metaforico, e nel film non c’è nessuna eclissi astronomica ma solo un normale e malinconico imbrunire.

                                                                                               

 

     Da un’intervista riportata su “Linguaggio e tecnica cinematografica”, di Rodolfo Tritapepe:

 

“I copioni presuppongono il film, non hanno autonomia, sono pagine morte. Per me il film, mentre giro, deve collegarsi a quei momenti e a quelle sensazioni che mi hanno portato a scrivere quella sceneggiatura. Per venir bene ho bisogno di ritrovare quella carica, quella convinzione.”

                                                                                                    Michelangelo Antonioni

                                                                                                

Alain Delon, Monica Vitti

L'eclisse (1962): Alain Delon, Monica Vitti

 

 

 

     Riflessioni a random prima, durante e dopo “l’eclisse”. Non riportando la trama, sono rivolte preferibilmente a chi abbia avuto modo di conoscere il capolavoro di Antonioni, o perlomeno ne conosca il tema.

 

 

     Appunto  riflettendo                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               Della trilogia sull’incomunicabilità (che non è composta da La Notte, L’Eclisse e Deserto Rosso come riportato sulla trama di FilmTv, ma dai primi due più L’Avventura. Semmai, con l’appendice Deserto Rosso, potremmo considerarla una tetralogia) L’Eclisse è a mio parere la più enigmatica e forse ermetica rappresentazione! La più efficace nello scandagliare nel profondo gli effetti alienanti dovuti all’inquietudine del vivere nella società del boom economico/consumistico dei primi anni ’60.

L’Eclisse è il resoconto di pochi giorni nel corso di quegli anni, un racconto espanso per estrapolare le dinamiche di quel disagio interiore così disarmante nel contesto ipocrita ed effimero di alcuni strati sociali e, nel contempo, per gli stessi così determinante nel condizionare l’equilibrio del singolo che a quelle stesse dinamiche, contestualmente alla propria forma mentis, risponde con eterogenee reazioni in virtù del libero arbitrio di cui beneficia.  

Che sia come ha detto la Gabanelli, intervistata da Bonolis, che uomini e donne si raccontano un sacco di balle? Comunque entrambi i sessi hanno un loro specifico ruolo nella tragicommedia della vita, ruoli che, pur fluttuando all’interno dei relativi instabili settori, mantengono una precisa eziologia a monte delle modalità comportamentali di genere.

L’incomunicabilità c’è e condiziona inesorabilmente - fino al punto di vanificarle - le nostre interazioni anche nella quotidianità ma, sebbene ci sia consapevolezza di tale status, di rado si ha la capacità di uscirne. 

I rapporti umani nascono attraverso un’iniziale e potenziale empatia sia tra individui dello stesso sesso che di sesso opposto; tra questi si instaura una comunicabilità dinamica che il tempo modifica, trasformandola progressivamente in incomunicabilità statica che, a sua volta, deve fare i conti con l’incomunicabilità genetica, quella che, in percentuale variabile, la natura instaura tra indoli diverse e, ancor più, tra sessi diversi. Nel caso in questione, tra Riccardo e Vittoria l’iniziale intesa viene vanificata dalle differenze di aspettative di ciò che può essere gratificante e ciò che invece lo è di meno. Tra i due emergono, e gradualmente si acuiscono, le diversità che già preesistevano a obnubilare ogni altra pulsione che sarà conseguentemente destinata ad attenuarsi e, nel tempo, ad annullarsi totalmente!

Con Piero, al contrario, l’incomunicabilità soggettiva è per entrambi palese fin da subito, in forma parzialmente inconscia ma viziata di opportunismo da parte di lui, senza veli e cosciente da parte di lei.

Traspare come Piero, nel tentativo di sintonizzarsi con gli orizzonti percettivi di lei, adotti uno sguardo a geometria variabile, come la torretta di un periscopio che purtroppo lui stesso non è in grado di fare emergere sopra il pelo dell’acqua, motivo per cui il suo visus continua a essere offuscato e distorto dalla densità del fluido in cui è immerso.

Ecco una prima eclissi: soddisfatta e venendo meno l’unica flebile comunicabilità possibile tra i due, ovvero quella dell’attrazione fisica,  tutto si eclissa nuovamente in un temporaneo st-by dei sentimenti e delle cose. L’acqua che scorre, il camminare frenetico delle formiche, un calesse di passaggio o un impianto di irrigazione che termina la sua routine automatica di lavoro, insomma del Tutto, financo degli amori. Fino a quando (ma questo sarà di là da venire e ci accontentiamo di intuirlo) a poco a poco la luna, metaforicamente, si sposterà e la luce tornerà gradualmente a risplendere ripristinando il divenire ciclico della vita!

 

Una postilla: Un bianco e nero strepitoso, essenziale per descrivere l’atmosfera alienata e opprimente della semideserta periferia romana. Potremmo dire che Antonioni in quest’opera passa dal bianco al nero attraversando ogni sfumatura dell’arcobaleno virtuale!

                                      

     Depressione esistenziale

Vittoria, rientrando nel contesto medio degli anni in oggetto fatica a trovare una sintonia con la superficialità della madre. Questa, con alle spalle un vissuto non esente da stenti e povertà, si accontenta di quella superficialità esistenziale garantita dall’attuale suo status - come più avanti avrò modo di approfondire -. Una superficialità che calza a pennello anche a Piero, ma avulsa a Vittoria; lei manifesta una forma mentis che, se da un lato le permette di intuire e avvedersi (gli esempi sono molteplici e disseminati lungo tutta la pellicola) dei limiti esistenziali di Piero, dall’altro sono all’origine di quella alienante frustrazione dalla quale vorrebbe affrancarsi senza però disporre della determinazione necessaria per riuscirci. Questo aspetto lo riscontriamo proiettato sul suo viso ogni qual volta in cui, casualmente o meno, abbia occasione di potersi esiliare dal quotidiano, che sia durante l’escursione in aereo oppure in casa della conoscente (sottolineo conoscente e non amica) attraverso quei siparietti esotici così estranei al suo mondo e quindi, nel suo caso, paradossalmente terapeutici.

 

Una seconda postilla: “ Una persona aggiunta al panorama umano

che ciascuno di noi mette assieme nel corso della vita”

 

    Tre eclissi in una

Antonioni suddivide l’opera in tre parti:

la prima, quella relativa a Riccardo, personaggio che la regia ci propone come il colto della situazione. Intuiamo il suo status di esperto nel settore socio-economico attraverso i testi esposti nella sua libreria, status che non gli impedirà i mesti atteggiamenti più avanti accennati.

La seconda parte ci introduce allo sballo del mondo borsistico che in quegli anni, evidenziando una patologica “pazzia” controllata ma non metabolizzata, culmina nel minuto di silenzio in memoria del defunto operatore di borsa. Momento rivelatore per eccellenza durante il quale, al pari dei centometristi sulla linea dei blocchi di partenza in attesa dello sparo, nessuno pensa al morto ma piuttosto alla successiva manovra da mettere in atto appena lo squillo ridarà il via alle contrattazioni!

Ai profani verrebbe da domandarsi se i pazzi sono quelli dentro oppure se sono quelli fuori a essere tutti tonti. Mah, che dire, sono profano in materia, ma senza dubbio è uno degli effetti collaterali delle società consumistico-industriali attraverso le quali alcuni hanno fatto fortuna mentre altri stanno ancora piangendo. 

La terza parte delinea l’apice del film, il preludio dell’eclissi, la fase conclusiva del percorso di alienazione di Vittoria con il suo innamoramento/infatuamento per Piero, il broker il cui scopo di vita si evince fin da subito essere ben lontano da quello di Riccardo, pur rientrando comunque nella casistica prima accennata e che avrò modo di esplicare più oltre in forma maggiormente dettagliata.

 

     Ancora una postilla. A casa di Piero

Vittoria: “Non ho ancora capito se è un ufficio, un mercato o un ring”

Piero: ”se uno entra nel giro si appassiona”

Vittoria: ”si appassiona a che cosa?” Nessuna risposta.

Poco dopo notando il dipinto appeso alla parete:

”E questo cos’è?”

Piero:”Boh, c’è sempre stato!”

 

 

     Un’occhiata ai protagonisti dietro le quinte

 

Lei

Affetta da quel mal di vivere particolarmente virulento nella middle class romana dei primi anni del benessere post bellico, Vittoria è incapace di evadere dal contesto in modo risolutivo in quanto, non solo non è, o finge di non essere, consapevole del problema e relative cause, ma la sua psiche è bloccata, anzi, letteralmente incarcerata dietro le sue sbarre virtuali, simili a quelle reali sulle quali metaforicamente e in più sequenze si posa la m.d.p.

Vittoria sta attraversando uno di quei periodi caratterizzati da mente apparentemente lucida ma in realtà parzialmente offuscata, ovvero quel talvolta non infrequente stato teoricamente savio, ma intriso di qualcosa di indefinibile che ne attenua la fluidità di pensiero. 

La sua psiche dondola in un temporaneo st-by, pigramente contagiata da quell’alienante realtà che, non facilitandone il graduale ritorno alla ragione, rimane in bilico tra il cosciente e l’incosciente in attesa di quella temuta razionalità che a breve dovrebbe, si spera, sostituire la precarietà in cui è così dolce gongolare. Non ha difficoltà nell’individuare in Piero il classico involucro senza contenuto, un teoreta della superficialità, ma è attratta dal suo aspetto fisico, aspetto che istiga a soggiacere a una dualità interiore che nell’immediato non riesce a dominare ma di cui intuisce a priori l’epilogo.

 

Lui

Ecco Piero, grande farfallone "de Roma", principe della Borsa.

Fa un certo effetto vedere Alain Delon nelle vesti di un Piero dall’accento romanesco e, ancor più, nell’assistere alle sue sottili quanto esplicative performances.

Piero ha appuntamento con una bionda ma di questo si ricorda in extremis, scende rapido dall’ufficio e lei è sotto ad attenderlo ma…non è più bionda! 

Il dialogo che segue non lascia dubbi sul “profondo” legame intercorrente tra i due, e ancor meno sull’altrettanto “profonda” (sigh) considerazione da lui riservata alla donna (e, molto probabilmente, al genere femminile tutto).

Altra performance di alto livello ce la riserva il recupero della spyder il cui incidente è stato letale per il ladruncolo che l’aveva sottratta: quest’ultimo è oggetto del commento di Vittoria ma Piero non recepisce e si preoccupa dei danni alla carrozzeria; cade poi nel ridicolo al quasi rimprovero di lei: “e tu pensi alla carrozzeria?” con la risposta tanto naturale quanto disarmante: ”se è per questo penso anche al motore!” Antonioni picchia duro sul ragionier Piero, ogni sua azione è una dritta per Vittoria che ha ormai ben inquadrato la forma mentis del maschio che si ritrova a fianco. Una prova tangibile l’aveva sperimentata anche il giorno della disfatta borsistica, quando era rimasta incuriosita dalla pacata reazione di un povero investitore e l’aveva pedinato nei movimenti fino a recuperarne il disegnino con i fiorellini lasciato sul tavolino del bar. La reazione di Piero alla vista del foglietto non poteva essere più superficiale, perfettamente in linea con le attese a conferma dei precedenti.

In breve, troppi colpi al cerchio e pochi alla botte, rompendo quell’equilibrio in assenza del quale si avalleranno progressivamente inquietanti sintomi nella sensibilità della donna; lei capisce e sorride ma evita di insistere.  In concreto, tra i due, i dialoghi sono di fatto inesistenti a evidenziare una pochezza esistenziale sempre più avvertita a contraltare della mera attrazione fisica che, indubbiamente, ( Delon non è tra i più brutti) sortisce un certo effetto ma che non impedisce a lei, per lo meno inizialmente, di ritrarsi dopo l’infantile proposta: “arrivati là ti do un bacio”.

 

 

L’altro

Il laureato, povero lui!

In apertura: un interno, una fotografia amplificata, una centrata istantanea sulla psicologia del ruolo maschile e femminile. Le prime due parole di Vittoria: “allora Riccardo” evidenziano attraverso la risposta: “che c’è?” tutta l’ipocrisia del maschio - in senso lato - in talune situazioni. Ipocrisia che si avvarrà di ulteriori conferme nel prosieguo della pellicola, sia da parte di Riccardo che di Piero pur essendo i due assolutamente diversi tra loro, quasi agli antipodi oserei dire.

La casa è quella di Riccardo: atmosfera asfittica dove il tempo scorre pesantemente scandendo i secondi in modo ossessivo. Lui tenta, bleffando, di ottenere risposte razionali attraverso un atteggiamento irrazionale che la situazione gli impone; mentre Vittoria, ormai determinata, si aggira nella stanza trasmettendo allo spettatore una particolare sensazione di disagio magistralmente esaltato attraverso insistite inquadrature che la regia accosta al solo rumore dei passi scandito dal fastidioso valzer del ventilatore.

Pateticamente Riccardo: “E’ l’ultima volta!” (il tapino pensa al presente non potendo far conto sul futuro) ma la risposta è poco incoraggiante: ”No Riccardo, non fare così”.  Vittoria ha già deciso, rimane in quella casa a disagio e non vede l’ora di uscirne. Non ne conosciamo i motivi, non avendo visto i pregressi, sappiamo solo che la notte precedente è trascorsa discutendo e che la donna ha ormai voltato pagina. Le parole di Riccardo risuonano nel vuoto su frequenze non udibili dalle orecchie di lei, e quindi senza sortire il minimo effetto. 

Quando finalmente decide di uscire, lui ostenta una falsa sicurezza che però subito rinnega uscendo a sua volta, salendo in auto e, con questa, proporle un passaggio. Offerta rifiutata a cui fa seguito il puerile sgambettare di lui che non ha più altre scuse per far fronte all’ormai infausta decisione di lei. Si lancia a tutto campo, camminare a braccetto, per mano, far colazione al chiosco ecc, ma la disarmante sentenza della donna è “scusami” alla quale lui, chiudendo il cancelletto con falsa nonchalance e senza voltarsi, si accommiata balbettando un tragico “e stai bene”!

Antonioni posiziona Riccardo nella tipologia del maschio in cui l’autostima, non brillando tra le caratteristiche più eclatanti, fatica a controllare l’atteggiamento che oscilla così tra la pseudo ipocrisia del minimizzare e l’eccessiva reazione emotiva; entrambe comunque volte a esorcizzare il presente onde attenuare l’interiore turbamento.

 

La madre, tipo speciale ma forse non così rara

Due righe per inquadrarla: il giorno della debacle, quando arriva in Borsa, dapprima esprime qualche battuta di circostanza con “colleghi e colleghe” dopodichè, estratto dalla borsa (la sua) un sacchettino, inizia a spargere sale a terra in segno di scaramanzia!

Ohibò, Antonioni senza remore ci presenta una figura di mamma non propriamente in linea con lo stereotipo della categoria. Costei, come più sopra accennato e come si evince dalle confidenze di Vittoria a Piero, teme la povertà. E’ cresciuta in un contesto di perenni bisogni primari che, uniti agli esigui bagagli culturali, negli anni le hanno gradualmente liberato la mente, nel senso che proprio non ha pensieri al di fuori dei suoi limitati orizzonti sfocianti nel giocare. Orizzonti purtroppo assolutamente sordi - e forse anche ciechi - alla minima sintonia, o meglio armonia, con la figlia. Ogni sua azione (compreso il “solitario” giocato durante l’insonnia notturna) rivela facilmente la sua personalità, avulsa a qualsiasi azione o riflessione che vada oltre la mera ed egoistica sopravvivenza materiale.

 

     Qualche postilla ancora 

Il capoufficio a Piero: “Sei sveglio, intelligente, sei bravo ma a volte fai delle fregnacce”!

Vittoria a Piero: “Chissà perché si fanno tante domande, io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene…e poi forse non bisogna volersi così bene”. “ Vorrei non amarti, o amarti molto meglio”.

 

 

 

    Altri pensieri sparsi

 

Nell’ultima mezz’ora i protagonisti esistono ormai in una dimensione altra, fuori dalla realtà e dal contesto dove prima avevano interagito;

l’asettico finale condensa in pochi minuti tutta la poetica del film. 

Come l’eclissi (non è un errore di battitura, è più corretta la “i” finale) astronomica oscura la luce del sole, l’eclissi dei sentimenti annichila l’interazione interpersonale dei protagonisti. Da un lato Vittoria, un classico della donna antonioniana, borghese benestante con un fondo di consapevole depressione e la cui intelligenza non agevola una facile soluzione del suo attuale status. Il suo è uno sguardo malinconico, di una malinconia attenuata quando sorride ma costantemente presente. Dall’altro lato il rampante Piero, complessivamente in linea con la tipologia maschile del regista nella trilogia, nonché nell’appendice “Deserto Rosso".

Uniche nella storia del cinema le enigmatiche e, nel contempo, rappresentative sequenze finali dove la mdp esplora la semideserta estiva periferia cittadina, arida al pari della ormai cronica insufficienza esistenziale intesa qui non come patologia clinica – alla quale il termine è abitualmente legato - ma come condizione non rara nella alienazione del consumismo contemporaneo che, al pari di un anestetico, obnubila la consapevolezza di sé nella componente meno superficiale di quest’ultima.

L’universo di Piero è antitetico al piccolo mondo in cui Vittoria circoscrive non tanto i desideri quanto le sensazioni di creatura pensante. Il cinico Piero si sente spiazzato di fronte alle troppe variabili della donna, troppi interrogativi sulle linee da seguire per lui, avvezzo a un binario unico a cui affidare l’incombenza del percorso ottimale.

L’escursione aerea e la serata a tre dall’esotica vicina sono scene preziose per penetrare ancor più l’animo di lei; entrambe le sequenze hanno in comune la velata malinconia che traspare da una poco convinta allegria foriera dell'inconscio desiderio di evasione da quel contesto ormai soffocante. Vittoria non regge più la depressione di tutto ciò che da sempre è stata la sua normalità: gli appartamenti arredati con stile impersonale e borghese, lo squallore delle strade con palazzi tutti uguali, abulici e grigi, come l’enorme serbatoio pensile dell’EUR in primo piano dalla finestra di Riccardo; tutto concorre ad alimentare un atmosfera alienante eclatantemente manifesta attraverso irrefrenabili sospiri di vera sofferenza fisica.

Antonioni dimostra nella tetralogia, e in particolare ne' L’Eclisse, di sapersi districare nell’ardua capacità di trasporre su pellicola quegli stati d’animo non facili da esternare nemmeno da parte dei coinvolti in prima persona. Come ci riesca non è semplice da descrivere e, attraverso questo mio excursus, sostengo la convinzione che un buon aiuto consista nel vedere alcune volte il film, avendo cura, unico requisito richiesto, di resettare per le due ore della visione ogni altro input.

 

In giro sempre le stesse rade figure, preti, suore, un calesse, una baby sitter che spinge una carrozzina, un giardiniere, tutti inframmezzati ai bus che vanno e vengono con i loro malinconici passeggeri. 

E la colonna sonora? Parzialmente non convenzionale direi, a parte l'Eclisse Twist di Mina - in apertura e in un'altra occasione nel corso del film -, a volte rumori di fondo, o al più suoni extradiegetici di xilofono, pianoforte e oboe, altre volte un sottofondo mirato alla pura amplificazione delle immagini attraverso suoni intradiegetici, come il vociare della Borsa (che rientra a pieno titolo nella colonna sonora), oppure lo squillare dei telefoni, o la musica etnica a casa della vicina.

Discorso a parte per la scena all’aeroclub di Verona dove il gruppetto atterra per una breve sosta prima di rientrare subito nella capitale: all’ombra del sublime brano Eclisse Slow del compositore Giovanni Fusco, una sequenza apparentemente banale si rivela invece una sottile opera d’arte con i personaggi anch'essi slow, a partire dai due seduti all’esterno del bar per arrivare agli altri due sotto l’ombrellone e, clou della sequenza, la slow bevuta di birra da parte dell’avventore straniero con il bicchiere trattenuto, in modo tutt’altro che casuale, con le tre dita e il mignolo sollevato. Una raffinatezza nel capolavoro!

 

 

    In vista dell’imbrunire

Senza dubbio da Storia del Cinema le scene che avvolgono il preludio agli ultimi dieci minuti, così poetico con quel rimpallo a voci alterne ”ci vediamo domani, e dopodomani, e il giorno dopo e l’altro ancora, e quello dopo, e stasera alle otto solito posto” ma così profetico, con quei repentini cambi di espressione da parte di lei, dal sorriso spensierato all’assorto riflessivo fino allo stacco finale della separazione. Qui Antonioni riposiziona entrambi sui rispettivi binari delle loro vite parallele, destinate quindi a non incontrarsi. Piero torna alla sua mezza dozzina di telefoni squillanti, e lei alla presa di coscienza della nebbiosa inconsistenza di un simile rapporto al quale non può chiedere nulla che vada oltre la superficiale esperienza vissuta. Ed ecco che con uno dei classici stacchi antonioniani ci ritroviamo catapultati nelle assordanti immagini del muto dialogo finale, con oggetti, cose e  persone in un unico ermetico amalgama insieme all’inquietante tastiera con la quale fin dalle prime sequenze avevamo appuntamento! 

 

 

 

    Analisi antonioniana

 

Azzardando e tenendo presente l’inconscio freudiano, sarei tentato (sfiorando la blasfemia) di definire quella della tetralogia di Antonioni un cinema che, dall’iniziale neorealismo-esistenzialismo, strizza l’occhio a un surrealismo libero da ipocrisie nell’evidenziare le varie figure in causa.

Figure senza maschere e al netto delle quotidiane parti recitate, ovvero quelle che ognuno mette in campo in misura diversa ma ineludibile. Antonioni in sordina riflette la fragilità delle vicende d’amore a largo spettro, dalle più coinvolgenti alle più superficiali, l’unico aspetto a differenziarle è il livello di autosuggestione. Non si salva nessuno ne' “L’Eclisse”, e tantomeno la figura di Vittoria che a un’analisi superficiale parrebbe librarsi più in alto degli altri, ma non è così, la sua è solo una posizione inizialmente avvantaggiata, diversa, ad esempio, dal vissuto di sua madre ma non per questo meno responsabile del suo attuale status e, conseguentemente, non meno “colpevole”.

Se per Piero la regia riserva la poco edificante tipologia del maschio cinico e superficiale, per Riccardo ha in serbo l’opposto, ma, come più sopra spiegavo, non del tutto in quanto anche quest’ultimo, pur non denotando le stesse caratteristiche del primo, recita la parte di uomo ferito non esente da reazioni connotate da inguaribile infantilismo. Tutti nel calderone, compreso Franco, l’amico a cui Vittoria si rivolge affinché l’aiuti a sostenere psicologicamente il povero Riccardo; la risposta di questi è disarmante: “preferirei sostenere te”.

 

Genericamente si avverte quello che potremmo definire l’effetto collaterale di una vita scandita dagli automatismi, di una vita immersa nel cemento a “edilizia rapida”, avvolta dal nulla e regolata dal denaro e dalla quale non sempre è facile restare immuni senza rinunciare a una dignitosa sopravvivenza. Nella caotica scena della Borsa, Antonioni evidenzia come non ci sia alcun nesso tra il mondo del denaro e quello dei sentimenti, se non quello fasullo ed edonistico che il primo può permettere.

Il fungo dell’EUR, visibile dalla finestra di Riccardo, non è certamente stato scelto dal regista per il fascino estetico, ma si potrebbe supporre, o meglio intuire, un collegamento subliminale per trasmettere allo spettatore il vuoto in cui gravitano gli oggetti - tutti - in assenza dei sentimenti. Persino un avveniristico ristorante in cima a una torre può apparire squallido, mentre, al contrario, anche un bidone d’acqua all’angolo di una banale strada può sembrare bello se “filtrato” dai sentimenti di cui è intriso l’animo di chi in quel momento lo sta guardando.

 

Una sottile analisi del Vuoto quella del grande regista, un’analisi delle emozioni cercate ma raramente trovate quando il benessere, nella sua tangibile positività, include altresì la negatività del vivere-non vivere, del provare la consapevolezza di non accontentarsi dell’esiguità esistenziale del primo arrivato per, nel contempo, provare un’alienata indifferenza per chi una sua personale tipologia di sufficienza esistenziale l’aveva raggiunta (Riccardo). Gli stessi luoghi ormai impersonali e spogli, solo figure anonime intente nei loro affari, acqua che scorre e formiche all’opera, tutto come prima ma sotto una diversa luce, quella dei sentimenti al momento eclissati come tutto ciò che li circonda!

 

“Mi piacciono gli oggetti forse più degli uomini” disse in un’occasione Antonioni, e ne' L’Eclisse forse più che in altre sue opere se ne ha riscontro. Oggetti tra i più disparati, quali un ventilatore, un tubo, parti di immobili, pennoni, bandiere, bidoni, irrigatori automatici, lampioni, fermate di autobus ecc diventano protagonisti in modo inversamente proporzionale ai vari personaggi nel corso del progressivo viraggio di questi ultimi in oggetti. La sensazione emanata potrebbe essere riassunta in un’equivalenza inversa oggetti/persone, ovvero all’ampliarsi dei primi si ridimensionano i secondi e viceversa. 

 

Pietra miliare del cinema italiano, per la regia innanzitutto, ma non di meno per le eccellenti prestazioni attoriali, Vitti e Delon in primis.

E poi, su tutto, non scordiamo la “benedizione” - costata ben sei ore di registrazione - dei brani “ Twist dell’eclisse” e “Radioattività” (ma, come da commenti in calce alla recensione, parrebbe trattarsi di un unico pezzo comprendente entrambi i termini), scritti dallo stesso Antonioni, musicati dal maestro Fusco e cantati dalla mitica Mina!!!

                                                                                           

 

Bene, che dire se non che il redigere questa analisi mi ha accompagnato nell’attenuare la pesante atmosfera di questi infausti giorni. Ringrazio quindi coloro che avranno la pazienza (non poca) di leggerla, nell’augurio di ritrovarci il prima possibile su queste pagine esentati dall’ “aiutino” del confino obbligato e, chissà, forse migliori dopo l’esperienza vissuta.

 

 

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