Regia di Peter Yates vedi scheda film
Cutters
Commedia sportivo-esistenziale all’acqua di rose, “All American Boys” (titolo originale “Breaking Away”) ebbe un successo spropositato che gli fece ottenere 1 Golden Globe 1979 come “miglior film commedia” e 5 nomination agli Oscar 1980 (con la sola statuetta conquistata per la sceneggiatura di Steve Tesich), oltre a rappresentare l’apice commerciale di Yates (regista, tra gli altri, di “La rapina al treno postale” del 1967, “Bullit” del 1968, “Presunto colpevole” del 1987 e “Labirinto Mortale” del 1988) con oltre 20.000.000 di dollari incassati nel solo nord-America.
Film dalle atmosfere ondivaghe, introduce tematiche “coming of Age” in simbiosi con blande istanze “progressiste” sulla vita di provincia di un gruppo di ragazzi di Bloomington (Indiana) figli di lavoratori delle cave di travertino, nel fatidico periodo di stasi tra il diploma e l’età adulta; il protagonista nonché fulcro della storia è Dave (il debuttante Dennis Cristopher), che si inventa natali (nord) italiani (principalmente trascinato dalla sua passione per le bici da corsa) come realtà alternativa e rifugio al suo apparentemente ineluttabile destino di futuro tagliapietre.
Spaesamento e paura del futuro comune ad un’intera generazione al termine dei fatidici anni 70, tangibile nei confusi discorsi post-adolescenziali durante i lunghi pomeriggi estivi passati da Dave e dai suoi inseparabili amici nel laghetto calcareo ricavato in mezzo alle cave, tra intenti di rivalsa contro i ricchi collegiali e sogni ad occhi aperti. Malinconie più accentuate e più realiste (senza il “rifugio” della passione sportiva) nei suoi amici per la pelle Mike (Dennis Quaid, al primo ruolo importante), Cyril (Daniel Stern) e Moocher, le cui pulsioni si perdono però un po’ tra le pieghe di un plot principalmente concentrato sulle gesta di Dave. Non un difetto in senso lato, ma in questo modo i loro caratteri risultano solamente abbozzati e poco approfonditi: le azioni che li vedono coinvolti (il matrimonio improvvisato di Moocher, il ribellismo “without a cause” di Mike) intervallano infatti il tema principale senza deviarne gli esiti, utili esclusivamente alla definizione “ambientale” e quali siparietti d’alleggerimento “strutturale”.
Poco importa, comunque, perché non mancano le situazioni divertenti (al netto di un doppiaggio che mi è parso non particolarmente preciso): dal frenetico dialetto veneto parlato da Dave al continuo ascolto di arie operistiche imposto ai suoi esterrefatti genitori fino alla serenata davanti al dormitorio del college femminile per impressionare e conquistare Kathy, il ritmo non cala mai di tono e l’alternarsi di situazioni agro-dolci risulta complessivamente omogeneo. La mano del regista si dimostra parimenti solida e non sensazionalistica, capace di controbilanciare sia le fasi movimentate (l’affollata corsa finale) che i campi e controcampi (il duello bici-camion sulla statale di Bloomington) con invisibile estro e stacchi di macchina ben calibrati. Proprio il finale riparatorio e celebrativo risulta forse la parte più debole, con la scontata riscossa sportivo-proletaria degli “zotici” indigeni contro i saccenti collegiali alloctoni (pur – come già detto - nella suggestiva messa in scena della piccola 500 miglia in bicicletta).
Gli interpreti sono tutti in parte, chi trascinato dall’ottimo script (l’inesperto quartetto di protagonisti) chi dalla consumata bravura (soprattutto i genitori di Dave, la svagata Barbara Barrie - dalla sapiente recitazione in sottrazione - ma soprattutto l’ottimo Paul Dooley, capace di tratteggiare con ironia un orgoglioso e cialtronesco “Working Class Hero”).
Have a Cinzano
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