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Trama

Presentato in concorso a Cannes 2025, il film Eagles of the Republic racconta la storia di George Fahmy (Fares Fares), il più celebre attore d’Egitto, che si ritrova costretto ad accettare un ruolo in un film propagandistico commissionato direttamente dai vertici del potere militare. Coinvolto suo malgrado nel cuore dell’apparato politico, viene risucchiato in un mondo opaco e manipolatorio, dove nulla è ciò che sembra.

Come una falena attratta dalla luce, Fahmy intraprende una relazione pericolosa con l’enigmatica moglie del generale che supervisiona il film. Mentre i confini tra verità, finzione e propaganda si confondono, George dovrà scegliere se adattarsi o resistere.

Tarik Saleh descrive Eagles of the Republic come un vero film noir politico. Attraverso il personaggio di George Fahmy, attore brillante e bugiardo cronico, tanto affascinante quanto ambiguo, Saleh esplora la relazione tra arte, potere e verità in un contesto dove il cinema diventa uno strumento di controllo narrativo. Non è solo un film sull’Egitto contemporaneo, ma una riflessione più ampia sul ruolo degli artisti nei regimi autoritari, e sull’ambiguità morale che può scaturire quando si collabora con il potere.

L’idea del film Eagles of the Republic è nata proprio da un paradosso vissuto dallo stesso regista: due nazioni, una democratica e una autoritaria, gli avevano offerto di dirigere film finanziati con risorse enormi, promettendo libertà totale. Questo corto circuito tra potere e seduzione, compromesso e ambizione, è diventato il cuore pulsante della storia.

Saleh rivendica l’intenzione di non fare un "film politico" nel senso più didascalico del termine. Il suo scopo non è trasmettere un messaggio univoco, ma evocare una verità umana più profonda, sfumata, contraddittoria. E infatti, mentre il protagonista mente per mestiere e per sopravvivenza, è proprio l’antagonista, il misterioso dottor Mansour (Amr Waked), a incarnare un ideale di integrità assoluta, trasformando le dinamiche classiche del genere.

Eagles of the Republic è un film su un sistema che tutto ingloba, persino il cinema. È una riflessione tagliente sulla propaganda, sul controllo delle immagini, e su come l’industria culturale venga manipolata per legittimare i regimi. Ma è anche una lettera d’amore (e di addio) al grande cinema egiziano del dopoguerra, quando il Paese era la Hollywood del mondo arabo.

Il film si interroga su cosa significhi resistere senza sembrare eroi, su come si può restare integri anche dentro un sistema marcio. Parla di uomini e donne che recitano ruoli imposti, nella vita come sullo schermo. E lo fa con un’estetica sospesa, dove lo splendore decadente del Cairo diventa una trappola visiva, come Hollywood negli anni della disillusione.

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