Regia di James Mangold vedi scheda film
"Psycho" all'ennesima potenza. L'eclettico ma discontinuo James Mangold (esordio con il piccolo, indipendente e sincero "Dolly's restaurant, sorprendente exploit con il duro ed efficacissimo noir metropolitano "Copland", brusco e rovinoso colpo a vuoto con il monotono, stereotipato e riciclato "Ragazze interrotte", una sorta di "Qualcuno volò sul nido del cuculo" al femminile senza la forza eversiva e la carica dirompente del classico di Milos Forman, ed infine il garbato, gradevole ed innocuo "Kate & Leopold" commedia romantico - sentimentale - temporale con Meg Ryan, ma soprattutto alla Meg Ryan) parte dal capolavoro di Hitch, si rifà ad un classico di Agatha Christie ("Dieci piccoli indiani"), rimastica "I soliti sospetti" e "Il sesto senso", soprattutto nel ribaltamento finale, aggiunge un pò di gore, come richiede il pubblico moderno (teste mozzate, mazze da baseball infilate giù per la gola), crea un'atmosfera notturna, opprimente e piovosa, suggestiva ed inquietante al punto giusto (un motel alla Norman Bates, appunto, in una notte buia, spettrale e tempestosa, senza possibilità di comunicazione all'esterno - dunque un’ambientazione tra le più consumate nella storia del cinema ed un tema che sembrava ormai anacronistico anche per il più clonato filone americano), usa una narrazione ad incastro, a flashback ed a ritroso come in "Memento" non nuova ma funzionale, ricorre a facili clichè narrativi, ad uno stile marcatamente derivativo e a personaggi decisamente di maniera (l'attrice fallita, la bella prostituta in cerca di redenzione, la coppia che scoppia, la coppia grigio borghese, il poliziotto duro e il detenuto dall'aria folle, il bambino introverso), ma cattura l'attenzione dello spettatore con una tensione costante e ben costruita (mentre anche la claustrofobia del motel -tutto ricostruito in studio - che accresce il clima angoscioso di sospetto ed ambiguità tra i vari protagonisti, ognuno con qualcosa da nascondere, sa di dejà vu) e stimola la curiosità di individuare come andrà a finire (fondamentale per un thriller). La soluzione è piuttosto imprevedibile ma anche piuttosto (in)credibile e decisamente macchinosa, mentre il consueto accumulo di finali e sorprese (al solito il troppo stroppia) toglie molto dell'interesse alla pellicola, tanto che l’attendibilità e la logica, già precarie per alcuni debordanti sovraccarichi narrativi, vengono definitivamente sacrificate di fronte alle esigenze della messa in scena, e "tutto risulta troppo smaccato per poter solleticare, dalle coincidenze alle sfighe che gravano in una sola notte sul gruppo dei malcapitati protagonisti" (Luca Baroncini): "la forza del film di Mangold sta proprio nel mettere il pilota automatico per 75 minuti, spargere spudoratamente tracce dappertutto e cullare lo spettatore nell'illusione di aver capito tutto. L'unico vero indizio è il titolo" (Paola Piacenza). Il giochino comunque funziona discretamente, se non altro perché non ci si annoia, né ci si irrita, ma l'impressione è che ad una seconda visione il film perda gran parte del suo fascino. Siamo certo ben lontani dalle suggestioni hitchcockiane e dai brividi malati di depalmiana memoria, anche se la conclusione è decisamente cruda, nella triste ed inevitabile constatazione che il male è talmente insito nell'animo umano, da sapersi nascondere subdolamente per poi riemergere nei momenti più inaspettati: mille pezzi di un delirio (in memoria di un misconosciuto ed inquietante dramma psicologico di Nicolas Roeg) per ricostruire una mente umana devastata. Indovinato e ben assemblato il cast in cui spiccano John Cusack, Ray Liotta e Amanda Peet, ma una piccola particina è riservata anche alla rediviva Rebecca de Mornay, nei panni di un'attrice piuttosto odiosa, dimenticata dal pubblico (una parte non molto diversa da quella che, suo malgrado, interpreta anche nella vita reale). Non una bufala ma nemmeno un cult: un prodotto medio di facile consumo e godibile intrattenimento, per fortuna privo di vaghe implicazioni teoriche o inutili e fumose riflessioni psicanalitico-freudiane. Quanto basta per non lamentarsi. Presentato alla 49° edizione del Festival di Taormina, uscito in Italia, in modo piuttosto indifferente, nella calda estate del 2003.
Voto: 6/7
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta