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Fellini: sono un gran bugiardo

Regia di Damian Pettigrew vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Fellini: sono un gran bugiardo

di hallorann
9 stelle

Da un’intervista del 1992 il regista canadese Damian Pettigrew cuce e imbastisce FELLINI: SONO UN GRAN BUGIARDO, documentario ritratto del 2002 che rassomiglia ad una lunga seduta psicoanalitica in cui il regista romagnolo si confessa. “Quando giro è come se un’altra persona con cui convivo si impossessasse di me, riconosco i miei tentativi di seduzione, plagio e autorità”. Immagini dal set di AMARCORD fanno capolino, gli attori recitano insieme e in controcampo a lui e numerose scene da 8 e ½ si inframmezzano al racconto di Fellini. “Per me sono molto più vere le cose che mi sono inventato che quelle che mi sono accadute”. A tale proposito viene inserito Italo Calvino che cita Nice e poi afferma che: “Per uno psicanalista il fatto che voi diciate la verità o una bugia non è così importante perché anche le bugie sono interessanti, eloquenti, rivelatrici tal quale ogni pretesa verità. Io provo una certa diffidenza verso lo scrittore che pretende di dire tutta la verità su se stesso, sulla vita, sul mondo.”. Fellini ammette candidamente di essere un gran bugiardo.

 

All’intervista si alternano immagini di Rimini, di campagna e montagna, luoghi in cui girò e il contrasto ieri oggi, il tutto contrappuntato prevalentemente dal sonoro del citato 8 e ½ o dalle musiche di Rota e Bacalov (specie i passaggi più intimi, misteriosi ed elaborati delle loro composizioni) che ben si plasmano alle nuove immagini, spesso tecnicamente dei lunghi carrelli. Se Tullio Pinelli racconta il metodo di creazione dei soggetti e delle sceneggiature, Fellini che univa tutto dice di sentirsi come un mago che deve credere a tutto “col mestiere che faccio”. La direzione di una scena di FELLINI SATYRICON e la resa sul grande schermo aggiungono fascino al fascino. Donald Sutherland, il Casanova dell’omonimo film, lo definisce “un caporale, un tartaro, un dittatore, un demone…le prime cinque sei settimane furono un inferno…lui fa il casting e non guarda le riprese. Sceglie le persone perché rappresentano ciò che vuole nel film, poi si aspetta che lo facciano. E per spiegare ciò che vuole lui traduce in due dimensioni, ciò che vede a tre e questo lo irrita, urla agli attori, quasi come un bambino”. Dunque urlare agli attori o a Peppino Rotunno faceva parte del suo processo creativo.

 

Terence Stamp/Toby Dammit sbarca a Fiumicino e fin da subito viene catturato dal modo singolare di girare e di presentargli il suo personaggio. Se il regista è un medium artigiano Mastroianni era l’attore ideale, perché non chiedeva mai nulla (al contrario degli attori inglesi e americani), arrivava stanco al mattino e dormiva nelle pause. Da un fuori set de LA CITTA’ DELLE DONNE Fellini dirige Marcellino e di fianco si riconosce Ettore Manni (il Sante Katzone del film) e tra i curiosi un sorridente Nanni Moretti. Come ricorda Sutherland, non tutti capivano l’improvvisazione, il recitare i numeri invece delle battute, un’arte concessa soprattutto ai generici. Fellini continua a raccontarsi…per lui il cinema è un’operazione di alta matematica, come mettere un’astronave nello spazio. Ancora Sutherland rammenta la scena tagliata in cui Casanova faceva l’amore con un nero e lui indossava una camicia blu da 700 dollari fortemente ricercata e voluta dal regista. Benigni lo giustifica perché era come un artista rinascimentale. Lo scenografo Dante Ferretti dice che bisognava suggerirgli i suoi pensieri, camminare in parallelo con lui ed inoltre ci rende partecipi della creazione del mare di plastica, così suggestivo eppure diverso da quello naturale che andavano a vedere perché Dante non lo rifacesse uguale. La frase di rito dell’operatore/direttore della fotografia Rotunno non era: “Sono pronto”, bensì “sono pronto a cambiare”. Altri capitoli del pensiero, della poetica felliniana sono il famoso: “Faccio film perché firmo un contratto, prendo un anticipo e non lo voglio restituire…”.

 

I sogni: Picasso, sognato due volte, come sorgente di ispirazione, spinta, stimolo, sollecitazione, fonte irradiante in un paio di momenti difficili della sua creatività. La donna quale pianeta sconosciuto, parte oscura di noi che intimidisce. E la paura che è un sentimento imprescindibile dall’umanità. Benigni ci spiega la differenza tra Freud e Jung e perché Federico preferisse il secondo. Gli ultimi capitoli discorsivi sono l’arte di saper mettere in scena i suoi tormenti, ed ecco venire in soccorso i dialoghi tra il regista Guido di 8 e ½ e la figura fantasmatica, allegorica e platonica di Claudia Cardinale. La morte come qualche cosa di letterario, di cui non ci si può impossessare. Si chiude con l’immagine iconica rappresentata e immortalata da Fellini stesso. “La mia vita si è consumata stando su un palcoscenico: buio sopra, luce intorno e un megafono in mano per fare una volta il ciarlatano, un’altra il buffone, il generale…”.

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