Regia di Marco Tullio Giordana vedi scheda film
Lungo quarant’anni di vita italiana, dall’alluvione di Firenze del 1966 al 2004, assistiamo alle vite dei quattro fratelli Carati, figli dell’intraprendente e simpatico Giuseppe e della severa ed affettuosa maestra Adriana: Giovanna, che diventerà rigido magistrato; Nicola, futuro psichiatra; Matteo, che sceglie la polizia; e Francesca, che sposerà l’economista Carlo, amico intimo dei due maschi. Il film si concentra principalmente sul bello e complesso rapporto tra i due fratelli, spesso in conflitto per questioni ideali e familiari: se Nicola è liberale e volitivo, seguace di Basaglia ed innamorato della brigatista Giulia, Matteo è tormentato, chiuso e spigoloso, incapace di stabilità emotiva e sentimentale. Sullo sfondo, l’Italia che sembra una canzone di De Gregori (“l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste […] l’Italia che resiste”).
Punto d’arrivo nella carriera di Stefano Rulli e Sandro Petraglia, secondo capitolo di un’ideale trilogia sul dopoguerra inaugurata da La vita che verrà di Pasquale Pozzessere, è uno dei casi più rocamboleschi nella fruizione di un prodotto. Nato per la televisione in quattro puntate, è stato congelato dalla mediocre e stolta dirigenza Rai ed infine invitato dal Festival di Cannes, ove vince il primo premio nella sezione Un certain regard. Passa in due parti al cinema, raccoglie due milioni d’incasso e pochi mesi dopo arriva finalmente in tv, riscuotendo un buon successo. Morale della favola: un ottimo prodotto televisivo, che non tratta il pubblico da analfabeta audiovisivo e riesce a trovare la cifra del popolare, diventa una testa di serie dell’annata cinematografica (incetta di premi), un modo di dire per definire la presunta e fallace rinascita artistica di un sistema e un oggetto amato dall’intellighenzia e dal ceto medio riflessivo e detestato da un pubblico trasversale.
A distanza di qualche anno bisogna riflettere sulla sua dimensione di opera conclusiva di una certa tendenza del cinema dei vent’anni precedenti. I suoi personaggi sono una sintesi tra i caratteri emotivi della serialità televisiva e le ambizioni e le frustrazioni degli antieroi del cinema medio italiano. È il lavoro definitivo di Rulli e Petraglia e della loro capacità di condensare temi civili e sociali all’interno di cornici funzionali al messaggio al centro della narrazione popolare: potremmo dire che, dopo anni di racconti, nel bene e nel male, puramente italiani, sono arrivati all’impresa del romanzo d’appendice (frammentazione in puntate con evidente distribuzione dei temi portanti, personaggi come funzioni che esprimono un mondo e un’idea, scrupolosa ma non pedante rievocazione storica).
L’apporto di Marco Tullio Giordana è fondamentale per la costruzione melodrammatica dell’epica domestica che s’intreccia con la storia patria, com’è d’altronde tipico della sua direzione lirica e civile al contempo. Prodotto dal sapore artigianale che si serve della committenza televisiva per non cedere il passo ai giri a vuoto, denso di avvenimenti amalgamati con sapienza e di scene-madre molto efficaci, è anche un film che ragiona anche geograficamente sulla dispersione (l’impossibilità?) di un’identità nazionale, scegliendo il privato come rifugio accogliente e forse nostalgico. Coro di attori in grande spolvero, devo citare necessariamente la straordinaria maturità espressiva raggiunta dal giovane Luigi Lo Cascio e l’immensa mater familias di Adriana Asti (la scena dei libri è uno dei colpi al cuori più strazianti del cinema italiano).
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