Regia di Dennis Hopper vedi scheda film
USCITO NEI CINEMA ITALIANI NEL 1970
VISTO SU NETFLIX
Di recente ho scritto che i simboli, quindi le icone, devono essere rispettati. Altrimenti bisogna prendersi la responsabilità delle conseguenze. Faccio questa riflessione dopo aver confessato il mio cruccio a un amico che di cinema ne capisce davvero e in procinto di scrivere la mia opinione su un film (ritenuto il road movie per eccellenza) iconico per un paio di generazioni e modello per una tipologia di cinema, quella del viaggio catartico e spesso allucinato, che negli anni a seguire ha avuto illustri epigoni.
Easy Rider a me non è piaciuto, non nel senso che mi sono addirittura pentito di averlo visto (anzi, mi sono tolto il dente e quindi è svanito pure il dolore di averlo snobbato per anni) ma nel senso che non lo rivedrei altre volte (cosa che invece di norma faccio con i film che mi conquistano). Non mi dilungherò su quanto - a livello di significati attribuitigli nell’ottica della sua indubbia rilevanza nella storia della cinematografia - di questo film è rintracciabile ovunque. Ma cercherò, in breve, di spiegare come mai su di me non ha avuto altro effetto benefico se non quello del sollievo di aver assolto a un compito ingrato.
Preciso che quanto appena affermato riguarda in particolare la seconda parte dell’opera scritta dai due protagonisti, Peter Fonda e Dennis Hopper, a sei mani con Terry Southern. Dal momento in cui Wyatt ‘Capitan America’ (Fonda) e il suo compare Billy (Hopper, anche regista del film) acquistano e poi rivendono una partita di cocaina e così entrano in possesso del denaro per affrontare un viaggio sui loro chopper con destinazione New Orleans, fino al momento dell’omicidio del loro nuovo compagno di viaggio George (un ispiratissimo Jack Nicholson, pensionato da ormai una decina d’anni), ho trovato il film ragionevole, pur nell’elementarità della sua struttura, con dialoghi per lo più naif ma quantomeno adatti a rendere lo svaporato spirito insito alla cosiddetta cultura di controtendenza degli anni Sessanta del Novecento e alla trasognata voglia di libertà tipica dell’anima hippie. Bella anche la fotografia (László Kovács), perlopiù quella dei paesaggi desertici attraversati dai due centauri lungo interminabili strade polverose. Di qualità, per gli amanti del genere, la colonna sonora composta da pezzi celebri del folk rock. Rifiutati anche dal più pidocchioso dei motel, questi due moderni cowboy disarmati e pacifici, bivaccano nella natura al lume dei loro improvvisati falò.
La seconda parte dell’opera è quella che mi ha addirittura indispettito. Il trauma causato dalla morte violenta del loro amico, porta i due antieroi a perdersi nel caos lisergico di un acido assunto in compagnia di due prostitute. Da questo momento in poi si scatena quello che vorrei chiamare l’abuso di quella tecnica cinematografica sulla quale ho avuto la coscienza di informarmi e che nella prima parte non aveva inficiato la plausibilità della narrazione filmata. Hopper si affida al montaggio found footage, un collage di pezzi di girato rimescolati per rendere la condizione allucinata e sofferente dei protagonisti. Una sequenza davvero troppo lunga che, a mio avviso, anziché impreziosire, penalizza l’intera opera con un minutaggio troppo alto di farneticante nonsenso.
Un finale a dir poco affrettato e rozzo è lo schiaffo in faccia conclusivo allo spettatore che da ogni film si aspetta un minimo di coerenza e di riguardo per le premesse. Una sufficienza poco più che abbondante per le ragioni spiegate, ma niente di più. Voto 6,3.
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