Regia di Dennis Hopper vedi scheda film
Easy Rider è uno di quei pochi film che ha il suo valore più per ciò che rappresenta, che per come è realizzato. Girato e montato a tratti in maniera sconclusionata, il film è però l’affresco più nitido e sincero della controcultura americana e del proprio tempo. Ovvero un momento storico in cui qualcosa negli Stati Uniti (ma anche nel mondo) stava cambiando. Un momento unico (a rivederlo adesso) in cui le persone cercarono uno stile di vita alternativo a quello esistente e in parte ci riuscirono. Perché sono proprio due hippies i protagonisti di questo film. E sono hippies le persone che incontrano lungo la strada e per la prima volta sullo schermo vengono mostrati i luoghi dove queste persone vivono, il loro modo di stare insieme e di intendere la vita.
Un racconto mitico come può esserlo stato il western, elegia visiva e narrativa per eccellenza del Mito Americano. I due protagonisti infatti, Billy e Wyatt, non sono altro che due cowboy (intesi però come fuorilegge) dell’era moderna. Già i loro nomi rimandano a due famosi personaggi del western americano, Wyatt Earp e Billy the Kid. Il cavallo è stato trasformato in una motocicletta, ma il senso del viaggio, del rapporto dell’uomo con la natura, del suo esistere in uno spazio immenso e a volte sconfinato sono rimasti gli stessi dei vecchi western. Il nuovo fuorilegge (sul finire degli anni sessanta, e per gli ipocriti benpensanti) era quindi colui che non si tagliava i capelli e consumava o vendeva droga e che comunque si ribellava contro l’ordine stabilito delle cose per trovarne uno proprio.
Dennis Hopper e Peter Fonda si mettono così sulla strada (Keruoac prima di loro ne aveva costruito la leggenda) per attraversare e riscoprire l’America. Un Paese che qui si sublima nella sua infinta estensione, nei paesaggi, nelle strade polverose che tagliano i deserti, nei boschi e nei fiumi che lo attraversano. L’elegia visiva che ne viene fatta (grazie anche alla splendida fotografia di Laszlo Kovacs) si contrappone però alla brutalità di alcune di quelle persone che lo abitano. E se da un parte abbiamo la comunità hippy come tentativo (utopistico) di un ritorno pacifico alla vita agricola e contadina dall’altra abbiamo figure reazionarie come i poliziotti o gli abitanti di alcune cittadine che spingono invece verso forme di fascismo sempre più preoccupanti. Come sempre il problema riguarda chi abbiamo intorno e chi non rispetta la libertà altrui.
Perché forse è veramente il concetto di libertà il cuore pulsante del film. Una libertà prima di tutto, su un piano cinematografico, produttiva e di realizzazione e poi anche espressiva. Hopper e Fonda infatti si allontanano, attraversando l’America, anche da Hollywood, dagli studios e dal loro sistema di produzione. Rinunciano alle ricostruzioni del set per girare in ambienti reali, sia interni che esterni, si abbandonano i teatri di posa e si insegue la realtà, ci si immerge nelle cose, si cerca di rubarne la bellezza o ci si perde nella semplice contemplazione del mondo che abbiamo intorno. Ci sono infatti bellissime riprese di tramonti, del deserto, della notte, del rumore del vento. Libertà di poter catturare la natura, libertà di potersi muovere ed esprimersi in spazi non finiti, non delimitati. Poi questa libertà si sposta e manifesta nella sceneggiatura, nei dialoghi, nella recitazione. L’improvvisazione assume un ruolo determinante nel lavoro svolto da Fonda, Hopper e Nicholson. Molti personaggi, poi, sono interpretati da gente presa sul posto o da amici di Fonda e Hopper. L’improvvisazione sembra essere infatti la forma perfetta per immortalare i momenti in cui BIlly insieme a Wyatt e a George (Jack Nicholson) parlano intorno al fuoco. Forse anche a causa di tutta l’erba fumata qualcosa di vero e sincero sembra esserci nei loro discorsi (questi però presenti nella sceneggiatura) e nelle relazioni umane che si creano fra i tre. Una libertà, dunque, anche di contenuti, di espressione, di movimento. Ecco cosa hanno rappresentato gli hippies e questo film più di ogni altra cosa, il desiderio di non rimanere intrappolati in niente di fisso e immutabile, che fosse un lavoro o una famiglia o una casa in cui abitare. Il desiderio di mobilità, di cambiamento, di quella fluidità esistenziale che l’uomo dovrebbe ambire più di tutto il resto.
Il viaggio di Bill e Wyatt ha inizio dopo che i due hanno venduto una partita di coca (comprata precedentemente in Messico) ad un produttore musicale. I soldi fatti vengono nascosti nel serbatoio della motocicletta. L’orologio è buttato via. Le strade iniziano a correre sotto le ruote. La musica è quella dell’epoca (Steppenwolf, The band, The Byrds, Jimi Hendrix) e serve a rimandare a tutto quel mondo esistente fuori dall’inquadratura, il mondo della controcultura americana. Fin dall’inizio Hopper lavora molto sul montaggio (che lo impegnò per quasi un anno) rifacendosi sempre al cinema d’arte europeo ma anche alle sue esperienze lisergiche. Tagli veloci, raccordi visivi non sempre rispettati e poi al posto delle sovrapposizioni un incastro rapido tra le immagine della fine di una sequenza e quelle dell’inizio della successiva. Hopper tende a sfruttare il montaggio come mezzo “artistico” (non sempre, però, con buoni risultati, ma sicuramente con una forte volontà di sperimentazione) più che come strumento “invisibile” della narrazione.
Dopo essersi riposati in una comune (ricostruita fedelmente vicino a Los Angeles) che forse è il momento in cui meglio si capisce il tipo di vita alternativo che gli hippies dell’epoca praticavano, il viaggio dei due continua verso New Orleans. Fermati dalla polizia perché partecipavano ad una parata senza permesso Billy e Wyatt vengono messi in prigione dove fanno la conoscenza di George, un avvocato, che poi proseguirà il viaggio insieme a loro. Il personaggio di George rappresenta l’America democratica, quella della media borghesia progressista. E rappresenta anche come un dialogo tra i due mondi, quello borghese e quello dei capelloni, era in realtà possibile. E’ bene ricordare infatti che alla fine degli anni sessanta gli hippies non erano visti di buon occhio da gran parte della popolazione bigotta e conformista (come poi possiamo ben capire dai discorsi fortemente razzisti a cui i tre dovranno sottostare durante una pausa in una tavola calda) e che soprattutto a causa dei loro rapporti con la droga erano ritenuti pericolosi. Dei fuorilegge, come abbiamo detto.
Easy Rider, secondo Hopper, fu proprio uno dei primi film in cui si vedevano dei ragazzi fumare marijuana. E la cosa ancor più bella era che a differenza del senso comune questi ragazzi non andavano ad ammazzare nessuno e tantomeno si trasformavano in maniaci sessuali. L’erba è usata come elemento di aggregazione, rituale da compiersi insieme ad altre persone per condividere un qualcosa ed è proprio quello che i tre dimostrano con i loro discorsi (passandosi un joint) e con il loro modo di comportarsi. La cocaina (la prima droga che vediamo) ha invece solo un valore economico, è una merce e non viene consumata da nessuno degli hippies. E infine l’acido (LSD) come forma di esplorazione interiore, ma anche di esplosione dei propri conflitti in possibili drammi o incubi.
Una volta arrivati a New Orleans, dopo l’uccisione di George, Billy e Wyatt vanno in un bordello di cui gli aveva parlato lo stesso George. Qui incontrano due ragazze e insieme decidono di andare per le strade dove impazza il Mardigras. Poi tutti e quattro se ne vanno in un cimitero dove assumono l’acido. Il trip dà a Hopper la possibilità di raggiungere il punto più sperimentale di tutto il film. Il montaggio impazzisce letteralmente, così come tutte le immagini che vengono mostrate, la luce sembra esplodere e bruciare la pellicola e gli attori sono in preda ad allucinazioni che ci riportano ad una forma di denudazione (sia fisica che psichica) dell’uomo. Ad un punto vediamo Peter Fonda in braccio ad una statua (ci ricorda quella della libertà, un altro dei simbolismi di Hopper) dove l’attore sembra parlare con la propria madre e l’accusa di averlo abbandonato. Finito il trip i due compagni si rimettono in viaggio.
Si arriva così alla drammatica concluione della loro storia. Due esponenti dell’America rurale e ignorante imbracciano un fucile dal loro camioncino e fanno fuoco. Prima uccidono Bill e poi sparando a Wyatt fanno fuori anche lui. L’ultima sequenza è molto bella. La macchina da presa (montata su un elicottero) allarga sempre di più il suo raggio di visione. Il fuoco dell’esplosione della moto di Wyatt diventa sempre più lontano e accanto alla strada sulla quale i due personaggi hanno trovato la morte vediamo snodarsi gli argini di un fiume. Mentre dalla colonna sonora partono le note e le parole di una canzone di Roger NcGuinn. La strada e il fiume (simboli dell’uomo, il primo e della natura il secondo) si allontanano. Quell’utopia che aveva visto proprio nella strada e nel viaggio un possibile ritorno dell’uomo nel cuore della natura sembra essersi distrutta ancora una volta a causa dell’ignoranza e del pregiudizio. La fine di questa favola moderna non lascia molte speranze e tragicamente preannuncia quello che sarebbe stato il disgregarsi del movimento degli hippies e del loro modo di vita e di pensiero. Ogni viaggio, purtroppo, deve terminare.
Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea del Dottor Chinaski (2006) dal titolo:
"LA RINASCITA DI HOLLYWOOD: LA FIGURA DEL REGISTA TRA MERCATO E ARTE"
https://operationjulie.blogspot.com
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