Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Non m’interessa il pezzetto in più (irrilevante nell’economia narrativa). M’interessa, se mai, l’emozione in più che un “E.T.” su grande schermo può provocarmi. Perché è solo al cinema che si afferra in pieno l’inquietudine trasmessa dal secondo skyline americano dopo quello di Manhattan (quello piatto e leggermente orrifico di una Los Angeles notturna spiata dal bordo di un canyon, che dopo il film di Spielberg divenne un “luogo” cinematografico); che il fiato si mozza nel momento in cui ci si alza in volo sulla bicicletta per sfuggire agli inseguitori; che, immersi nella notte, si vive in pieno il senso della separazione tra i due amici. Non m’interessa quello che Spielberg ha fatto dopo (condivido molti degli appunti culturali generali che fa a Spielberg Fofi, ma più come produttore di immaginario – altrui – che come regista), ma quello che ha fatto allora, nel 1982, dando corpo ancora una volta alla fiaba per eccellenza del nostro secolo. Che è una fiaba molto più triste e amara di quanto ricordiamo vent’anni dopo. Pare banale, ma forse va ridetto: quando E.T. sbarca, comincia la fiaba dello spaesamento, dell’intolleranza, dell’aggressione. Solo i bambini hanno cuore, lacrime e curiosità sufficienti per avvicinarglisi. E sotto gli effetti speciali, nell’82, c’era ancora il cuore, umano e non umano, che pulsava.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta