Regia di Wim Wenders vedi scheda film
È ufficiale. Wim Wenders è un grande regista. A patto che si tenga lontano dal cosiddetto “cinema di finzione”. Se Crimini invisibili (1997) è un didascalico pamphlet e The Million Dollar Hotel (1999) un pomposo guscio vuoto, questo The Soul of a Man fa il paio con il celebre Buena Vista Social Club nell’elaborare con intelligenza il concetto di documentario. Il film, come è noto, fa parte di una serie voluta e in parte prodotta da Martin Scorsese per celebrare una ricorrenza speciale, l’anno dedicato al blues. Vari episodi diretti tra gli altri da Clint Eastwood, Marc Levin, Charles Burnett e dallo stesso Scorsese, con Wenders a fare da apripista di lusso. The Soul of a Man è però un documentario anomalo, dato che il cinquanta per cento di quello che si vede è un’artificiosa ricostruzione d’ambiente, con attori immersi in un bianco e nero sgranato e una voce over (in originale di Laurence Fisher) che fa le veci del narratore Blind Willie Johnson. Di fatto, quindi, una finzione mascherata, una sorta di iperrealismo d’epoca che rende ancora più verosimile il discorso. Quale? Il solito di Wenders: le immagini possono essere ideale archivio della memoria e custodia del rimosso. Era tutto teorizzato nel fantascientifico Fino alla fine del mondo (1991), e non è un caso che anche The Soul of a Man cominci con una letterale “proiezione” nello spazio e nel futuro. Espandendosi tra i luoghi del tempo, Wenders racconta dell’immenso talento di Skip James, poi si sofferma a lungo su J.B. Lenoir, misconosciuto genio, peraltro unico musicista blues a finire sulla lista nera di McCarthy. Alle sequenze autentiche (memorabile il documentario svedese) e a quelle rifatte dal regista s’intrecciano spezzoni di autori contemporanei che danno la loro personale interpretazione dei classici del blues. Tra Lucinda Williams e Lou Reed, Nick Cave, Bonnie Raitt e i Los Lobos, un grande film da vedere e sentire ad altissimo volume.
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