Regia di Jacques Tati vedi scheda film
Clamoroso flop, eppure unanimemente considerato dalla critica come il capolavoro di Jacques Tati. Il cinema vive di queste contraddizioni, così come di tantissime rivalutazioni postume.
Tati ha un coraggio e una sfrontatezza smisurati: ha fatto costruire appositamente un set colossale, osando una volta di più (di troppo) a proporre al pubblico la propria comicità, che è – qui più che nei suoi film precedenti – una visione di mondo, un personalissimo punto di vista sullo stato delle cose.
Per chi scrive, Tati è fastidioso come uno sciame di zanzare in un’afosa giornata d’agosto, e più insignificante di una formica in una metropoli.
Il fatto poi che questa comicità, oltre a rivelarsi fallimentare (faccio riferimento al film in analisi), si accinga ad essere cinicamente spietata non magari nei confronti del discutibile stato politico di allora (o della politica in generale), o – perché no – dell’opprimente e inutile burocrazia che spesso infetta i sistemi istituzionali, ma bensì nei confronti del progresso tecnologico, la rende oltretutto diabolica e irritante.
Un progresso che il regista vede come ostacolo alla comunicazione e ai rapporti sociali. Avrebbe tutto il motivo di pensarlo oggi, ma allora era così giustificato tale accanimento?
Che ogni cineasta sia libero di sparare a zero su qualsiasi argomento egli ritenga meritevole di tali aspre critiche, non lo metto certo in dubbio. Tutto sta sempre nel come.
Un grande esperto di cinema una volta mi disse che un buon regista è colui capace di trasferire in immagine i concetti. In questo senso “Play Time” è un film dichiaratamente espressionista: le scenografie – fredde, metalliche, glaciali, geometricamente rigide e figurativamente spigolose – sembrano parlare allo spettatore (nell’inquadrarle, Tati dimostra una padronanza del mezzo non comune: traspare una mirabile sicurezza nella scelta di angolazioni e posizionamenti della macchina da presa). Parlare sì, ma per comunicare cosa? Tengo valida la definizione di “buon regista” enunciata poc’anzi, ma per trasferire in immagine dei concetti bisogna prima avere dei concetti da esprimere. Viene quindi spesso il dubbio (e mano a mano che il film scorre diventa una certezza) che questi edifici imponenti fuori e perfetti dentro, questi uffici così inverosimilmente ordinati e puliti, si facciano portavoce del vuoto assoluto proprio non tanto del sistema rappresentato, quanto della poetica stantia e insignificante di un regista che non ha (più) nulla da dire (forse è proprio per questo motivo che a “parlare” sono prevalentemente suoni e rumori di sottofondo).
Un mero accanimento sterile e ingiustificato a (un concetto tutto personale di) progresso e borghesia (perché anche quest’ultima, in più punti del film, viene attaccata). L’aggravante (una delle tante) è la scelta di Tati di affidarsi ad una comicità slapstick obsoleta (obsoleta con riferimento all’anno di uscita del film, quindi se lo si vede oggi l’effetto deleterio è duplicato) e inefficace, mai in grado di pungere o strappare un fugace sorriso. Questo unito alla totale assenza di un plot così come di un qualsiasi personaggio minimamente definito.
Ne scaturisce un mero affastellamento di luoghi e situazioni, un amalgama di sequenze sconnesse e prive di dialoghi, un ritratto confuso del caos.
Non c’è progressione narrativa o emotiva, non c’è scrittura, non ci sono idee al di fuori di un intento di critica e condanna verso tutto e – quindi, al contempo – niente in particolare. Intento che però sfuma agli albori, non trova ragion d’essere, non trova riscontro in qualche giustificazione, non riesce a materializzarsi.
Il risultato è “Play Time”: due ore sfiancanti, estenuanti, interminabili come di rado è capitato di vedere, fatte assolutamente del “niente” inteso nel suo significato più assoluto.
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