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Play Time

Regia di Jacques Tati vedi scheda film

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La recensione su Play Time

di sasso67
6 stelle

Non riesco ad essere un fan di Jacques Tati, nonostante che il suo personaggio allampanato e dinoccolato mi ispiri innata simpatia. Questo Playtime è indubbiamente un film atipico: lo era nel 1967 e lo è ancora oggi a quasi 45 anni di distanza. L'impressione che mi dà, in diversi momenti della sua durata e soprattutto in quelli notturni, è quella di uno dei quadri di Edward Hopper (penso a Nighthawks o ad Automat) animato e riempito all'inverosimile di personaggi come una vignetta di Jacovitti, salami con le gambe inclusi. La confusione contemporanea è raccontata come sterilizzata da forme geometriche fini a sé stesse, che spersonalizzano l'abitarvi ed il lavorarvi all'interno, come in una moderna espressione dell'esperienza kafkiana, in cui il potere è invisibile e solo apparentemente assente. Le strutture sono lucide e spigolose, tutte uguali l'una all'altra, tanto che nella sequenza iniziale si capisce soltanto dopo un po' che siamo all'interno di un aeroporto, anziché di una clinica. In questo film che chiede di essere visto in ogni sua singola scena, per gustarne il concatenarsi ed il perfetto meccanismo da orologio svizzero, ma che alla lunga rischia di stancare lo spettatore (Tati operò tagli in più riprese, rispetto al montaggio iniziale), spiccano comunque delle gag geniali (l'usciere con la maniglia per simulare l'esistenza di una porta che Monsieur Hulot ha mandato in frantumi; l'ubriaco che tenta di trovare una via sulle venature del marmo che ha scambiato per una mappa stradale; l'ubriaco che continua a cadere dallo sgabello davanti al bancone del bar), che sembrano invocare il potere salvifico della confusione e di un sano disordine, di fronte ad un ordine che maschera il vuoto.

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