Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Il cancello di una colonia penale, una capanna-locanda, una strada di fango. Dopo un’ora e mezza preparatoria, neanche troppo lunga per gli standard di Lav Diaz, Phantosmia si “chiude” in questa triangolazione scenografica opprimente per tutte le due ore e mezza restanti. Hilarion, vecchio ranger che puniva i ribelli comunisti negli Anni Sessanta e che è affetto da allucinazioni olfattive probabilmente dovute a stress post-traumatico, viene assunto per fare la guardia all’ingresso secondario della colonia penale di Pulo, sotto gli ordini di un arrogante giovane violento generale. Vicina all’ingresso, esterna alla colonia, dentro la capanna-locanda, si consuma la vera prigionia: la giovane Reyna viene costretta dalla madre d’adozione a prostituirsi con guardie e prigionieri della colonia contro la sua volontà. Hilarion sta di guardia alla colonia ma è il mondo fuori che è una grande prigione, il suo sguardo è sempre rivolto al di qua del cancello, a vedere delle Filippine stravolte drammaticamente dai fantasmi della dittatura militare e della violenza del passato. L’unità di luogo è di certo una novità per il cinema ramificato di Lav Diaz, e il fatto che questa unità di luogo si contenda un dentro e un fuori con una tensione costante e insostenibile rende il film uno sforzo di scrittura e di messa in scena abbastanza inedito per il regista filippino. Assodato ormai che sono sempre più rare le inquadrature più lunghe di un minuto, e che il ritmo è sempre più accogliente anche per lo spettatore meno preparato, si può qui notare come proprio la collocazione spaziale dei protagonisti giustifichi la tendenza allo scavalcamento di campo, che è diventata ormai grammatica ordinaria di un regista abituato a fissità estreme e prive di raccordi di montaggio, dando a quella stessa tendenza un senso in più. E i tagli più frequenti non tolgono comunque respiro a un’epica che, come al solito, si tinge anche di mitico, specie in riferimento alla misteriosa creatura felina che la leggenda vuole si aggiri nei boschi vicini alla colonia, e che ogni anno molti cacciatori vengono a cercare. Il ruolo di questo mito, sempre più centrale col passare delle ore del film (4 in tutto), assurge a metafora sempre più stretta di una libertà d’altra parte sempre più larga, rara nota di speranza in un Lav Diaz usualmente nichilista. Da notare lo strapazzo degli fps di alcune sequenze, che fa bene il paio con la sovraesposizione e la registrazione audio più amatoriale di alcuni altri suoi titoli recenti: è come se dall’ingegnerarsi per studiare i singoli quadri Diaz abbia portato gli spettatori più concettosi a ingegnerarsi piuttosto sul ruolo di certi “errori tecnici”, quasi a saggiare, attraverso di essi, il tono del film e le sue ambiguità più oscure.
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