Regia di Harmony Korine vedi scheda film
Baby Invasion (2024): locandina
Ed ecco, le ossessioni visive e narrative di Harmony Korine si spingono ancora oltre, entrando in un territorio dove il linguaggio cinematografico collassa all'interno di quello del videogioco e dell'interfaccia digitale.
È un pò come se il film smettesse di essere solo cinema e diventasse un'esperienza transmediale, un flusso visivo che esiste contemporaneamente su più livelli di percezione, proprio come un videogioco multiplayer o una stream di Twitch.
Nell'esperienza videoludica contemporanea, l'interfaccia non è più solo un supporto informativo, ma una sovrastruttura che modifica il nostro modo di vedere e di interpretare il mondo di gioco.
Korine sembra in qualche modo aver assorbito questa grammatica per trasportarla in modo radicale all'interno del cinema : non ci troviamo più d'innanzi ad un film che racconta una storia, ma in un flusso visivo interattivo senza interattività. Un gioco che non possiamo giocare ma che si gioca da solo, mentre noi cerchiamo disperatamente di capirne le regole.
L'effetto è alquanto strano, sembra di trovarsi allo stesso tempo dentro e fuori da questa realtà, un pò come quando si guarda la live di un videogioco su Twitch : si vive l'azione in tempo reale ma si osserva anche come spettatore, filtrata da commenti, reaction, pop-up che compaiono sullo schermo.
Nel videogioco contemporaneo, soprattutto
in quelli open-world, non esiste più un unico livello di realtà : ci sono le interfacce, le sovrapposizioni, i menù, le minimappe, le finestre che si aprono e chiudono in tempo reale.
Korine prende tutto questo e lo porta dentro al film, creando una sorta di iper-visione, un ambiente percettivo sovraccarico dove lo sguardo dello spettatore è costantemente disorientato, frammentato, obbligato a decifrare più strati di realtà simultaneamente.
Una logica che si intensifica ulteriormente con la presenza di una sorta di simulacro espanso, di loop digitale, di dimensione altra fatta di glitch, sprite, pixel e texture artificiali.
Qui Korine sembra voler giocare con il concetto stesso di mondo virtuale, portandoci fuori dalla simulazione per rientrare dentro una simulazione ancora più profonda, proprio come succede nei videogiochi quando si passa da un ambiente fotorealistico a un'interfaccia astratta, da un open-world iperrealistico a una schermata minimalista di gestione dell'inventario.
L'effetto finale è quello di un collasso
totale del concetto di realtà, un film che esiste in uno stato di continua instabilità percettiva. Non sappiamo più se stiamo guardando un mondo reale ispirato a un videogioco o un videogioco ispirato alla realtà, perché il confine tra le due cose non esiste più.
E forse è proprio questo il punto: Baby Invasion non è solo un film sul videogioco, ma un film che funziona come un videogioco, che pensa come un videogioco, che ci costringe a guardarlo con gli occhi di chi è abituato a navigare mondi digitali. È una forma di post cinema, un oggetto visivo che esiste in uno stato di perenne transizione tra media, tra il film, il gioco, lo streaming, l'interfaccia.
È come se Korine ci dicesse che non siamo più semplici spettatori, ma utenti di un sistema di immagini che esiste su più livelli e ci ingloba, ci confonde, ci sovraccarica di informazioni. E in questo senso, Baby Invasion è forse una delle opere più radicali mai realizzate sul rapporto tra cinema e cultura digitale.
Ma, e qui risiede forse una delle possibili chiavi di lettura del film, Korine trascina lo spettatore/giocatore all'interno di uno spazio illudendolo di parteciparvi, illudendolo che vi sia un senso, un obiettivo, per poi lasciarlo vagare nel nulla, in un loop di stimoli che sembrano avere uno scopo, ma non lo hanno.
Viene meno, così, la componente interattiva del videogioco, pur non essendoci una negazione della sua forma (che anzi si satura e diventa ossessiva), con lo schermo che si riempie di sovrapposizioni, di interfaccie, di notifiche, di elementi estranei alla narrazione.
Ma invece di aiutare nell'orientamento, questi affollamenti visivi generano spaesamento, perché ci mostrano un gioco che non funziona come dovrebbe, frustrando il nostro desiderio di agire, di muoverci nello spazio. La simulazione è corrotta e non offre alcuna gratificazione.
Qui entra in gioco, allora, la dimensione apparentemente più anti-trascendentale del cinema di Korine, quella in cui noi, come i personaggi, ci ritroviamo a galleggiare in un non-luogo che ci impedisce ogni via d'uscita, risucchiandoci al suo interno.
Anche in Aggro Dr1ft e Spring Breakers gli spazi, che all'inizio sembravano sogni, diventavano incubi, illusioni di libertà che si trasformavano in prigioni senza coordinate, senza vie di fuga.
Baby Invasion (2024): scena
In Spring Breakers, nella seconda parte, le ragazze entrano in una dimensione irreale, mitologica, ma questa irrealtà non le libera, le rende spettri di un sogno americano che è degenerato.
In Aggro Drift, il protagonista sembra intrappolato in una missione senza fine, ripete mantra privi di significato, cerca una direzione che il film stesso gli nega. In Baby Invasion succede lo stesso: lo spazio digitale dovrebbe offrire una fuga, un'alternativa, un senso, ma invece diventa un incubo senza risveglio.
Non c'è nessuna verità oltre, perché la realtà stessa è diventata un'altra simulazione, un altro gioco incomprensibile, senza logica, senza scopo. Korine sembra dirci : "vuoi uscire? Vuoi trovare una verità oltre la simulazione? Vuoi capire cosa è reale? Bene, non puoi".
Il divino non esiste, non si trova, come avviene per esempio nel cinema di Malick, nella luce, nella materia, nel vento, nel movimento di macchina. Non c'è alcuna rivelazione, nessuna ascesa celeste, nessuna verità definitiva, ma solo la sospensione in una realtà che sembra un purgatorio senza via d'uscita. E quindi, alla fine, Baby Invasion diventa un film che non è più solo un film, non è più solo un gioco, non è più solo un'esperienza digitale. È un meta-mondo, un labirinto percettivo, dove il dentro e il fuori si sovrappongono, l'azione è negata, il significato si sfalda, e la trascendenza resta un miraggio.
Un film che ci chiude dentro un universo di icone, interfacce, segnali, sovrapposizioni, e poi ci lascia Iì, a chiederci: cosa stiamo guardando? cosa è reale? cosa conta davvero? Ma senza darci mai una risposta.
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