Regia di Siew Hua Yeo vedi scheda film
Venezia 81. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Nel 1993 uscì nelle sale un filmetto piuttosto imbarazzante dal titolo "Sliver" che venne reclamizzato come un thriller dalle venature softcore. Chi lo produsse e lo distribuì voleva capitalizzare il successo di "Basic Instinct" offrendo a Sharon Stone una parte ad alto tasso erotico con lo scopo di trascinare in sala l'arrapato maschio americano per guardare le grazie dell'attrice, qualche nudo e qualche morbosa scena rubata all'intimità. La storia non era un granché benché l'idea di base non fosse poi così banale. Un grattacielo di New York, tramutato in un "Grande Fratello" in cui la privacy era continuamente violata, era il protagonista della narrazione. Il film di Philip Noyce stuzzicava la morbosa curiosità dello spettatore facendo affiorare fantasie sessuali borderline. Le telecamere nascoste nelle camere dei lussuosi appartamenti di Manhattan erano un pretesto erotico per guadagnare l'attenzione del pubblico ma rappresentavano comunque un affaccio interessante verso la questione della privacy violata dai sistemi di sicurezza che iniziavano a diffondersi grazie allo sviluppo tecnologico dell'epoca.
Trent'anni dopo gli obiettivi del regista Yeo Siew Hua sono sostanzialmente diversi benché vi sia un lapalissiano punto in comune tra "Sliver" ed il suo "Stranger Eyes" ovvero l'istinto umano di spiare le persone per poterne carpire i segreti più pruriginosi. Il film di Noyce alla fine era soprattutto fumo negli occhi, nella sua frenesia voyeuristica, mentre il film del regista di Singapore non prova nemmeno a scandalizzare e a focalizzare sul sesso la propria attenzione. Yeo Siew Hua ci costringe a guardarci le spalle, ci mostra quanto la nostra intimità possa essere calpestata da telecamere e device che registrano la nostra presenza. In nome della sicurezza finiamo per ledere la nostra libertà di non esistere e non apparire. Questo è, senza dubbio, il dilemma davanti cui ci pone il regista di Singapore nel descrivere una società divisa tra sviluppo tecnologico e bisogno di anonimato.
"Stranger Eyes" prova, dunque, a riflettere sul diritto alla privacy, sulla necessità di tutelare l'individuo e di garantirne la sicurezza in luoghi pubblici ed infine, giocando al gatto col topo, mostra come l'essere umano sia atavicamente mosso dall'istinto di nascondersi, di spiare, di studiare la propria preda dietro un "binocolo" appostato nella propria tana.
"Stranger Eyes" è un film sofisticato che nasce come thriller con l'angosciante rapimento di una bambina e vira in una lenta digressione verso l'analisi del comportamento di chi guarda e di chi si sente osservato con tutto ciò che ne deriva in termini di eccitazione e compiacimento. Il pretesto iniziale viene posto, via via, in secondo piano per dare spazio all'analisi dei comportamenti e alla convergente dicotomia tra il desiderio di apparire a tutti i costi e quello di rimanere anonimi. Nel finale "Stranger Eyes" cambia nuovamente pelle. Mentre la traccia narrativa che si riferisce al rapimento volge al termine l'osservazione del (presunto) colpevole, nonché dei genitori della piccola, si conclude in un invito inaspettato a voltar pagina e concentrarsi sui rapporti interpersonali anziché sulla dimensione "social" dell'apparenza e sulla protezione che l'anonimato garantisce nel consumare relazioni senza più relazione. Raffinato ed interessante, "Stranger Eyes" pecca, forse, per i tempi lenti del cinema orientale ma non manca di affascinare, stupire e lasciare dietro di sé un insegnamento prezioso sull'importanza delle seconde chance e dei sentimenti umani. Da vedere assolutamente.
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