Regia di Luis Ortega vedi scheda film
Le metamorfosi, le trasformazioni, le reincarnazioni. Tutti i mutamenti di El Jockey di Luis Ortega, in concorso a Venezia 81, sono dirottamenti narrativi, estetici e addirittura filosofici da far girare la testa. Irriducibile a parole e spasmodicamente entusiastico, come di fronte a un Aki Kaurismaki sotto peyote, il film è un’esilarante giostra nella vita e nelle vite di Remo, fantino ubriacone e tossicodipendente che non riesce più a vincere, così da garantire il successo alla famiglia malavitosa della compagna Abril. Incidenti su incidenti lo trasformano in un uomo senza passato (Kaurismaki, per l’appunto) che va in giro con una fasciatura in testa che lo trasforma in un busto di Nefertiti ambulante, cercato per essere ucciso dalla famiglia di Abril e disposto improvvisamente a lasciare che la realtà attorno a lui lo trasformi, piuttosto che decidere per se stesso. Il film sfiora apparentemente tonalità classicamente queer, ammiccando alla fluidità del gender e alla libertà dei sentimenti, ma la pulsione è più tanatologica, mortuaria, “in negativo”: Remo non ha tante vite, anzi non ne ha nessuna, e solo a quel punto diventa invincibile, una sorta di supereroe in grado di volare, trasformarsi liberamente, andare velocissimo, scomparire. Nascita e morte diventano la stessa cosa, e Luis Ortega così fa nascere e morire nell’arco di pochi istanti intere tonalità, generi, deviazioni surrealiste, orrori lynchani e tableaux vivants attoniti, prendendosi delle libertà che è raro vedere al cinema e che meritano pazienza, impegno, e alla fine devozione. E attenti ai dettagli: di rado una libertà tanto punk la si è vista accoppiata a una meticolosità così ossessiva.
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