Regia di Walter Salles vedi scheda film
Una valida testimonianza reale di ingiustizie di cui il mondo era (ed è) pieno.
Qui si narra uno spaccato delle dittature sudamericane del secondo dopoguerra, quelle protette dagli Stati Uniti. Nella fattispecie la dittatura dei gorillas in Brasile dal ’64 all’85, da noi ben meno nota di quanto meriterebbe.
Il film di Salles è felice in quanto riesce a coniugare questi due aspetti, che in una vita e una società normale non dovrebbero mai coesistere: un aspetto sacrosanto, e non scontato – ma assai più frequente nella società brasiliana – della vita allegra; dei rapporti sociali appaganti non così difficili; di una famiglia allargata dove la solidarietà e l’affetto devono prevalere, anche verso altri individui e famiglie. E, dall’altra parte, l’orrore della dittatura, la sua disumanità capace di spegnere quanto di bello si vede che c’è, in termini di affetto e allegria realmente circolanti.
Si vede anche questo: una vita autenticamente felice non può mettere da parte l’indignazione - e la conseguente necessaria lotta per il cambiamento migliorativo – contro le condizioni politiche che impediscono tale felicità, individuale e sociale. Con tutte le conseguenze che tale – doverosa e meritoria - opposizione comporta: la perdita della serenità, degli affetti più cari, perfino della vita. Conseguenze delle più terribili, per un essere umano. E che rendono ancora più esemplare, da stimare e imitare, tale lotta – peraltro qui non violenta, l’unica davvero esente da critiche, purché mai manchi minimamente tanto del coraggio e della radicalità necessari – contro la dittatura. Lotta che qui - come quasi sempre in America latina – è stata contro i privilegi di pochissimi ricchissimi, usi a sfruttare le maggioranze, anche nei modi più orribili.
Della dittatura si vedono: la terribile incertezza esistenziale cui conduce; la violazione dei diritti (compresa l’assenza delle doverose risposte da parte delle autorità, che devono lasciare tutto il più possibile nell’indeterminato); la disperazione per l’isolamento provocato dagli iniqui, e la follia cui l’ingiusta detenzione porta; l’ipocrisia e la falsità degli inquirenti; i cappucci neri per non permettere il ricordo da parte delle vittime.
La sceneggiatura è tratta dal libro autobiografico del figlio del protagonista, l’eroico Rodrigo Paiva. Suo figlio ha perso il padre da bambino nei modi più drammatici, e a 20 anni è pure rimasto tetraplegico dopo un incidente: è poi diventato uno scrittore di fama, tradotto in varie lingue. Questo aspetto contribuisce a rendere ancora più straordinaria la vicenda, così come l’evoluzione della madre/vedova: dopo la perdita del marito, torna a studiare – diritto - a oltre 40 anni e diventa il più meritevole difensore dei diritti degli indios brasiliani, i più attaccati dalla dittatura.
Un gruppo cui lei, pugliese d’origine (Facciolla il cognome) nemmeno apparteneva, ma che sentì di dover difendere, rischiando solo problemi, senza altri vantaggi personali che non fossero la coscienza di difendere l’oppresso dall’oppressore. Uno splendido esempio di impegno culturale e politico, storicamente attuato.
Emergono come fondamentali i presìdi della democrazia: la stampa libera e la magistratura libera. I diritti che sottostanno a tali presidi della democrazia non sono stati regalati: anzi sono stati guadagnati con i denti, e anche il sangue dei martiri. Chi ha beneficiato di tali diritti conquistati da altri – diritti che sono unico vero argine all’arroganza violenta – ha il dovere di essere ben conscio di tale fortuna non guadagnata da sé: un qualcosa, tipico dell’antifascismo, che mai come in questi anni si è però criminosamente ignorato, da 80 anni in qua.
Duole però ricordare i limiti dell’opinione pubblica: quando non fa a sufficienza il proprio interesse, ha potuto lasciare proliferare il peggio dell’umano. Senza poter essere scusata. Ma tanto il discorso pubblico generico, infiocchettato di diversivi anche poco dignitosi, permette una autoassoluzione comoda, almeno in pubblico. Ma, forse, per nulla comoda nella propria coscienza; anzi, terribilmente tormentosa.
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