Regia di Kohei Igarashi vedi scheda film
Poco c’è di più ironico del titolo Super Happy Forever per un film così triste firmato Kohei Igarashi, già co-regista di Damien Manivel per La nuit où j’ai nagé. Dopo e prima, presente e passato, la morte di qualcosa e la nascita di qualcos’altro, per chiudersi infine su ciò che unisce le due parti: Super Happy Forever è un fragile mandala che parla esplicitamente di sincronicità e di dettagli che tornano come piccole magie del destino, ma che è interessato anche a vedere come queste magie si nascondano in un reale indifferente e depresso. Quando infatti Sano piange la moglie appena morta facendo un viaggio nell’albergo dove la conobbe 5 anni addietro, già Igarashi stringe con lo spettatore il patto per cui bisognerà fare attenzione agli oggetti, alle inquadrature, ai piccoli eterni ritorni. E allora diventano protagonisti un berretto rosso, un cellulare che cade, una canzone (Beyond the Sea di Bobby Darin), un pacchetto di sigarette. Quando poi si torna indietro e si assiste all’incontro, il principio è capire l’origine del significato di quegli oggetti, e della loro importanza. Il risultato, mesto e rassegnato, è quanto siano fragili i rapporti e le cose belle, quasi come se si fosse tutti costretti sullo stesso filo a vivere di equilibrismi. E infatti per poco anche la conoscenza fra Nagi e Sano si traduce in un lutto, con Nagi che per conoscere il futuro marito percorre tutti gli step che lui avrebbe percorso 5 anni dopo non per conoscerla bensì per piangerne la morte. Si parlerebbe di un film nichilista se solo la magia sincronica non regalasse alcune piccole speranze allo spettatore, ma pochi metri più in là, a ben guardare, c’è pura spietatezza. Altro che super felici per sempre.
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