Regia di Wolfgang Becker vedi scheda film
Quando si pensa ad un film tedesco dei giorni nostri, viene d’acchito alla mente un’opera sul periodo nazista oppure sulla separazione e sulla successiva riunificazione della Germania in due stati distinti e completamente separati. Sarà perché negli ultimi anni sono stati esportati quasi soltanto film del genere (tra i più noti, citerei, oltre a questo, La caduta e Le vite degli altri) o forse anche perché i maggiori autori del cinema tedesco occidentale – Fassbinder, Herzog, Wenders, solo per citare i nomi più noti – sono (anche qui: quasi) sempre rifuggiti da un approccio diretto a queste tematiche. Salvo errori, nella sterminata filmografia fassbinderiana, soltanto Lili Marlene, Berlin Alexanderplatz e Veronika Voss sfiorano (molto di striscio), senza veramente affrontarli di petto, l’argomento ed il periodo del nazismo. Forse il solo Edgar Reitz del primo Heimat si sporca davvero le mani con alcuni episodi sul periodo nazista e sulla Seconda Guerra Mondiale (è comunque interessante anche l’incursione di Schlöndorff con la riduzione del Tamburo di latta di Grass). Ben venga, dunque, la fioritura degli ultimi anni di film che, con toni e umori variegatissimi, si situano entro le coordinate di questi due periodi ineludibili della storia tragica del novecento tedesco. Tra questi, un buon successo arrise nel 2003 a Good Bye Lenin!, commedia agrodolce sulla fine della Germania Est, un (non) paese fin troppo poco studiato e noto alle cronache occidentali esclusivamente per le gesta criminali della Stasi e per le sue atlete donne che ottenevano risultati eclatanti nelle più svariate discipline sportive, a suon di ormoni e porcherie varie che, in qualche caso limite (emblematico quello dell’ex lanciatrice del peso Heidi – ora Andreas – Krieger), ne hanno provocato la metamorfosi in uomini. Quello della Germania Est era un mondo diverso da quello cui siamo abituati e la proverbiale efficienza teutonica era stata praticamente azzerata dalla burocrazia di stampo sovietico: per potersi comprare un trabiccolo che soltanto la propaganda spacciava per automobile, era necessaria la domanda in carta bollata ed un’attesa interminabile (quando, fingendo, Alex dice alla madre che è stata accettata la richiesta per la macchina, quella, piccola funzionaria del partito esclama incredula «dopo solo tre anni!»). Nonostante che il film inciampi in qualche luogo comune, che forse serve a renderlo più digeribile ad un pubblico internazionale, la storia funziona e mostra come la Storia proceda imperterrita, cancellando le tracce del passato, anche se noi dormiamo per mesi. Il rovesciamento ironico della realtà – con l’aiuto di un amico aspirante regista, Alex fa credere alla madre che il muro di Berlino venga abbattuto per consentire che i profughi dell’Ovest capitalista possano trovare rifugio nella patria tedesca del Socialismo – è commovente e fa riflettere sul fatto che, forse, ci sarebbe stato bisogno di un vero processo d’integrazione e di comprensione tra le due Germanie, più che di una teutonicissima annessione. Se, infatti, è vero che la DDR, letteralmente, si dissolse come Stato, è forse verosimile che qualcuno dei valori che ne stavano alla base avrebbe potuto sopravvivere ed essere utile a mitigare il capitalismo arrogante della Coca-Cola o del Burger King. E forse, come fa la signora Christiane Kerner sul suo lettino d’ospedale, fa comodo a tutti fingere di credere a quel che vediamo, senza indagare su cosa stia dietro alle immagini di superficie.
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