Regia di Massimo D'Anolfi, Martina Parenti vedi scheda film
Un maestro invita i suoi allievi a prendere contatto con il campione di terra che hanno di fronte. Non basta riconoscerlo a distanza, è necessario toccarlo con le mani, annusarlo, ascoltarlo, guardarlo da vicino. Man mano che si prosegue in questo esercizio multisensoriale, l’esperienza si arricchisce: si iniziano a notare differenze cromatiche, tattili, olfattive. Non è sempre necessario avere a disposizione un laboratorio con un microscopio, a volte bastano attenzione e immaginazione. La sequenza appena richiamata è quella di Master Gardener (2022), diretto da Paul Schrader, in cui ci viene mostrata l’applicazione di uno dei principi etici e metodologici alla base della permacultura: l’osservazione prolungata e consapevole dei cicli ecologici, prima di qualsiasi relazione pratica con il sistema su cui si vuole operare.
Master Gardener (2022) – Dir. Paul Schrader
Tutto questo cos’ha a che vedere con il cinema e, in particolare, con il lavoro di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti? A questa domanda si può rispondere brevemente dicendo che Bestiari, Erbari, Lapidari è un film che parla di ecologia, o meglio di etica ambientale. Perché se è vero che la pellicola – suddivisa in tre atti, secondo la ripartizione del titolo – è un percorso dove progressivamente l’elemento umano viene tolto dall’equazione, rimane però il fatto che, proprio per questa sua direzione anti-antropocentrica, sta progettando un nuovo tipo di sensibilità, la quale rientra a tutti gli effetti in un più ampio disegno etico che è l’uomo a dover concretizzare. Nel conferire all’opera l’andamento di una progressiva deumanizzazione delle immagini, i due autori non stanno descrivendo uno stato di cose attuale ma ne stanno immaginando uno diverso, uno scenario dove l’uomo anziché appropriarsi in maniera violenta della natura, se ne prende cura, e dove nel suo campo percettivo iniziano ad emergere contenuti prima nascosti. È dunque un film che parla di animali, piante e pietre, ma anche di uomini; parla di ecologia ma anche di etica. Il progressivo dirigersi dell’immagine verso l’inorganico non è perciò indice di pessimismo, perché quanto più il film si de-antropocentrizza, tanto più si va a delineare il modello di sensibilità a cui i due autori sembrano voler auspicare. Proprio nel terzo atto del film, in quei blocchetti di cemento costruiti in memoria di persone deportate e morte nei campi di sterminio, proprio di fronte a quella materia inorganica – il cemento – sia l’uomo che il cinema ritrovano se stessi, perché entrambi ritrovano l’immagine. L’uomo ritrova se stesso nella misura in cui il suo sguardo non si ferma al blocchetto in quanto tale né all’iscrizione metallica che vi è posta sopra, ma scorge dietro di essi l’orrore, la sofferenza, la lotta per la libertà e per la dignità che hanno caratterizzato il secondo conflitto mondiale. Se ci si è sufficientemente disintossicati dal dato materiale e si è riusciti a partorire un’immagine, anche il cinema è in grado di ritrovare la linfa necessaria per riprodursi e non morire.
Bestiari, Erbari, Lapidari (2024) – Dir. Massimo D’Anolfi, Martina Parenti
Il destino del rapporto uomo-ambiente è dunque legato a doppio filo con quello del cinema: in gioco è la sopravvivenza dell’immagine come dispositivo etico-estetico, come strumento in grado di avvicinarci a ciò che siamo soliti far rientrare nella sfera dell’alterità (organica e inorganica). Se nel primo atto del film, Bestiari, l’intento era quello di costruire analogie, simmetrie, corrispondenze tra gli animali umani e gli animali non umani, evidenziando il sostrato biologico ed etologico comune ad entrambi, nel secondo, Erbari, il compito inizia a farsi più difficile. Qui non basta più notare la somiglianza tra le articolazioni umane e animali messe in evidenza da immagini radiografiche, né è sufficiente avvertire l’inquietante affinità dei lamenti dei cuccioli di tigre con quelli dei neonati umani. Si tratta, questa volta, di riuscire ad entrare in contatto con esseri viventi apparentemente statici e afasici. I ponti comunicativi, qui, sono più fragili e vanno perciò rinsaldati. D’Anolfi e Parenti allora aguzzano lo sguardo, amplificano lo spettro visivo e acustico facendoci immergere nel clima di un luogo adibito alla cura, all’esposizione e all’archivio di esemplari vegetali: l’orto botanico di Padova, il più antico al mondo. Si noti bene: esposizione. Anche qui, come accadeva nei confronti degli elefanti e dei leoni del primo atto, è operante, anche se meno esplicita, la famigerata analogia tra l’azione della cinepresa e quella del fucile; anche qui il contenuto che viene ripreso è in una certa misura oggettificato; anche qui si costruiscono gabbie e si trasformano esseri viventi in trofei: è inevitabile, fa parte della natura del mezzo. Ma sarebbe riduttivo focalizzarsi esclusivamente sui limiti etico-tecnici del cinema, tant’è che i due registi sembrano procedere nella direzione opposta: il cinema come strumento che libera, contamina e restituisce la parola. Linguaggio in grado di generare altro linguaggio.
Bestiari, Erbari, Lapidari (2024) – Dir. Massimo D’Anolfi, Martina Parenti
Sulla scia di Sans Soleil di Chris Marker, il film cerca di abbattere i confini tra le immagini e nel far questo agisce dall’interno contro la propria stessa struttura espositiva. A fine visione, se l’intento dell’opera è riuscito e il raggio della nostra percezione si è esteso, comprendiamo che a separare le tre parole del titolo sono virgole e non punti fermi. D’Anolfi e Parenti, come due sapienti maestri giardinieri, ci guidano nella difficile impresa di distruzione dei confini individuali allo scopo di forgiare un’umanità nuova, consapevole dell’impatto che esercita sull’ambiente e disposta perciò ad escogitare soluzioni innovative per rapportarvisi in maniera sostenibile. L’uomo, sembra suggerirci il film, deve essere disposto a farsi e disfarsi continuamente, come un blocco roccioso che diventa prima ghiaia, poi cemento, e infine immagine.
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