Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Il film si apre con un inizio tranquillo e promettente per una famiglia borghese rilassata che va a trascorrere il suo meritato fine settimana nella casa di campagna di loro proprietà, ma, sorpresa delle sorprese, la casa è occupata da un’altra famiglia, che senza molte cerimonie invita i proprietari ad andarsene, lasciando le provviste e il veicolo. Di fronte a questa paradossale sopraffazione, i legittimi inquilini credono addirittura a un pessimo scherzo, ma il padre è minacciato col fucile, ha appena il tempo di mandare via i bambini, di chiedere un accordo, ma in men che non si dica viene freddato dal colpo del fucile. La moglie, lì per lì inespressiva ma sotto shock, improvvisamente vomita e poi scappa con i suoi bambini in cerca di aiuto, ma nessuno apre loro la porta.
Che cosa è successo? Tutto è desolato e spoglio nella campagna, carcasse di animali bruciano; alla fine grazie all’aiuto di un ragazzo trovano rifugio in una stazione decadente, dove vi è altra gente, nella stessa situazione, impaurita, affamata, costretta a unirsi per sopravvivere, ma percorsa da strisciante diffidenza gli uni verso gli altri, e dove quello che conta è consegnare quel po’ di beni che ha ancora a disposizione per darli al responsabile del rifugio, il signor Koslowski, che contratta con i rifornitori per l’approvvigionamento del necessario, al fine di distribuirlo in parti eque a tutto il gruppo, alcuni dei quali, però, cercano di ingraziarsi questo signore, anche vendendo il proprio corpo. Evidentemente questo signore non fa parte dei 36 giusti di cui tanto si vocifera, non ha smanie di potere, ma come tanti altri esseri umani cerca il suo tornaconto personale, e talvolta a spese della vita altrui, perché il cibo scarseggia sempre più, e le razioni diminuiscono.
Lo scopo di questo gruppo, che via via si ingrandisce da gente proveniente anche dalle città, è cercare di fermare un treno, che prima o poi arriverà, per portare via tutti da questo inferno sceso sulla terra. Lo smarrimento generale viene ancor più amplificato dal fatto che nel film non si dice nulla intorno a questo inferno, non se ne fa neanche il nome, ma certamente si ha la sensazione, come spettatori, che è accaduta una catastrofe, e proprio per il fatto che essa non ha alcun tipo di definizione, si è indotti a pensare che tale catastrofe in realtà non sia altro che la disumanizzazione generale, il crollo della civiltà, che le nostre stesse esistenze si portano dentro.
Nel gruppo via via allargatosi, infatti, sono tante le scene di rabbia, di sopruso, di violenza, e in fondo riflettono questa stessa disumanizzazione, che, come un cancro, sembra diffondersi, trasformando il luogo di rifugio, la stazione, con i suoi saloni, in un vero e proprio campo di concentramento, dove muore una bambina per inedia e una giovane donna si suicida dalla disperazione.
Il figlio della mamma sente parlare dei giusti, ma uno del gruppo li deride, li identifica con quelli che nella città si buttano nel fuoco nudi per sacrificarsi di fronte alla tragedia che incombe. Il bambino segue alla lettera queste voci, e in una notte, di punto in bianco, si avvicina al fuoco, appositamente fatto sui binari per fermare quel treno che tutti attendono. In questa scena il bambino, prima di compiere il gesto finale, si guarda ancora indietro, forse per accertarsi che nessuno lo veda, forse per porgere l’ultimo saluto al mondo, o forse per cercare, nell’ultimo istante, gli occhi di sua madre.
Mentre si sta per gettare, la ronda di turno lo scorge, e quasi per miracolo lo salva, rassicurando il bambino, sussurrandogli che è stato coraggioso, perché, anche se non si è buttato nel fuoco, è come se lo avesse fatto, con l’intenzione di riscattare il mondo.
A parte il finale, da cui sembra di intravedere la liberazione dall’inferno materializzarsi dalle belle vallate che ora si possono scorgere dalle finestre di un treno, che forse è quello tanto atteso, in quest’opera viene rappresentata l’umanità senza più maschere, costretta a fare i conti con il suo disordine, con la follia che continuamente tiene a freno per favorire una presunta civiltà, che di quella follia si nutre fino all’imbarbarimento stesso, fino alla disumanizzazione. E forse non è un caso che il finale sia lieto solo fino a un certo punto: dai vetri del finestrino del treno possiamo contemplare la natura, ma non sappiamo se nel treno c’è davvero un’umanità che ancora la possa contemplare e, ammesso che ci sia, tanto meno sappiamo dove possa o voglia essere diretta…
Quest'opera di Haneke, non certo la migliore per via della sua immediatezza compositiva e del contenuto talvolta svelato in modo un pò didascalico - se confrontata ad altre ben più complesse e sofferte, prima fra tutte Il nastro bianco o lo stesso Amour -, forse, per questi stessi limiti, è tuttavia preziosa, e comunque sottovalutata, perchè in essa traspare tutto il manifesto filosofico della sua opera: la grande difesa dell'esistenza nel suo inevitabile naufragio.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta