Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Il cinema di Haneke vuole soprattutto mostrare. I suoi film immergono lo spettatore in situazioni che non vengono contaminate dall’azione dei personaggi, sono storie dal contenuto morale estremo tese a mettere in discussione le convinzioni di chi guarda. Nel Il tempo dei lupi, il dato scatenante è già accaduto fuori e lontano dallo schermo, Haneke lo impone senza filtri, la narrazione vive esclusivamente del tempo presente. Rispetto ai precedenti lavori si riscontra nella sua scarna e rigorosa cifra stilistica la stessa tendenza antropologica e sociale dentro una “banalità del male” che corrode la società umana. Nell’entroterra francese, un’umanità allo sbando incrocia i propri destini e inevitabilmente si delineano dei rapporti di forza per poter sopravvivere. Il contesto ambientale e scenico ricorda il famigerato serial cult inglese “I sopravvissuti” senza sapere cosa ha dissolto o distrutto la società e le sue regole. Siamo nella terra dei lupi, l’uomo ritorna elemento di un branco che primeggia su di un altro liberando dosi di violenza e bestialità. All’interno della vicenda si muovono Anne e i suoi due figli. Il regista rinuncia a qualsiasi prevalenza interpretativa, Isabelle Huppert nella parte di Anne pur non risultando una presenza marginale fa semplicemente parte del contesto generale, la sua vicenda personale non è altro che una delle possibili condizioni che ogni sopravvissuto potrebbe avere sopportato. Haneke documenta con un’attenzione insolita le contraddizioni esistenziali fra esseri viventi imbarbariti e terrorizzati dalle privazioni materiali e spirituali con l’esterno, la terra (che si suppone sopporti qualche grave tragedia che ha ferito il pianeta), la natura che appare quasi rigogliosa, pacificatrice e quieta. Anche la lunga sequenza al buio con lo schermo completamente nero e scheggiato da un microscopico falò nella campagna restituisce una forza conflittuale sbilanciata fra il disorientamento dell’uomo e l’enfasi notturna della natura. Il regista raccorda questo punto d’incontro con la presenza lungo tutto il film di animali, morti, ammazzati e bruciati quali vere presenze destinate ad occupare spazi non più adatti al modo di vivere dell’essere umano. Nel potente prefinale con il figlio maschio di Anne che prende la scena, il regista riunisce simbolicamente l’uomo in lotta con sé stesso e la forza degli elementi naturali, accentuando drammaticamente quei significati di autodistruzione liberatoria e l’impossibilità di cambiare le convenzioni umane, che ritornano e si ripetono all’infinito. Al di là dell’innegabile fascino del racconto, il film resta un po’ troppo distaccato dalla percezione dello spettatore, non aiutato da un personaggio emblematico o seducente che faccia scattare in chi guarda un meccanismo che lo avvicini alla comprensione e all’identificazione nella vicenda. Il personaggio di Anne rimane sotto traccia per volontà del regista, lo impone dall’inizio scioccante, quando la prevedibile reazione emotiva davanti a ciò che apre il film non appartiene a lei, ma ad un altro soggetto, spostando di fatto l’attenzione sull’accaduto ed emarginando il suo profilo psicologico. Il regista usa Anne come una figura protesa ad una trasformazione inutile, fra la femminilità e i tentativi di sostituirsi al maschio che nel suo piccolo branco è assente. La donna si defila nel corso degli eventi fino ad una possibile omologazione con le nuove regole dei più forti, non assumendo nessuna posizione alternativa, assiste impotente alla mercificazione del corpo e accetta pesanti compromessi. Tutto gioca in favore della “dimostrazione” cara al regista che non toglie né aggiunge altro a quello che vuole che si veda. Senza arrivare alla sequenza del telecomando di Funny games, la panoramica vuota finale è ugualmente disturbante e interrogativa, ma questa volta la narrazione non genera anticorpi, si resta inermi e attoniti di fronte allo scorrere dell’immagine senza più parole, colorate solo dalla natura.
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