Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Correva l’anno 2003 quando Clint Eastwood decise di adattare per il cinema il romanzo La morte non dimentica di Dennis Lehane, colpito soprattutto da una battuta di uno dei protagonisti su una giovinezza che non ha mai avuto e di cosa questo possa comportare una volta adulti, e ottenendo in questo modo uno dei massimi picchi della sua illustre carriera di regista.
Affidandosi al bravo sceneggiatore Brian Helgeland e partendo da premesse piuttosto simili a Sleepers, il “filmone” del ‘96 di Barry Levinson con un supercast e incentrato su tematiche come pedofilia, religione e su legge & crimine ma dai risultati banalmente scandalosi, confusi e/o superficiali, Eastwood ottiene invece un film che è come una tragedia shakesperiana, una fiaba nerissima vincolata a una morale altrettanto tragica su come degli eventi negativi possono cambiare radicalmente la vita delle persone, Mystic River non si può etichettare banalmente come un semplice thriller perché nell’intricata trama si nascondono domande sulla vita e sulla morte, vista come fine ultimo di ogni atrocità umana.
Un fiume “mistico” e misterioso che divide in due la città di Boston ma soprattutto le coscienze dei suoi abitanti e a riflettere (grottescamente) la parte più nera dell’animo umano,, tra i retaggi di un passato irreparabile e l’impossibilità di andare oltre a quanto successo, e a cui non é concessa né la pietà di un Dio indifferente (o inesistente) né il farlocco giudizio spesso irrisolto di una legge troppo umana e, in quanto tale, tardiva e (troppo spesso) fallace.
Un fiume “mistico” che é l’ignoto di una vita nel quale dobbiamo necessariamente immergersi, anche quando questa non dà scampo a nessuno.
Lezione magistrale di rigore stilistico e solidità narrativa, Mystic River é anche un film duro e intenso, opera imponente oltre che profondamente umana, per un Eastwood mai così spartano e minimalista, ben poco propenso ad inutili virtuosismi ed invece estremamente pragmatica dando il giusto tempo e spazio ad ogni evento come solo i grandi del cinema riescono a fare, capace di mostrare la banalità del male nella sua forma più pura senza però eccedere in immagini violente o, peggio ancora, alla sua spettacolarizzazione preferendo al contrario lavorare su una tensione psicologica reale e tangibile, e proprio per questo ancora più spaventosa.
Una regia ieratica e austera in puro stile Clint Eastwood a cui si aggiunge anche una fotografia, opera del fidato Tom Stern con Eastwood fin dal suo debutto in Debito di sangue (2002), cupa e inquietante volta a indugiare nelle contraddizioni dell’animo umano anche attraverso un uso pragmatico ma mai dozzinale di ombre (soprattutto) e luci.
Non ha certo problemi poi ad affronatre argomenti fortemente drammatici o complessi ma lo fa sempre con pacatezza e un rigore, stilistico e morale, esemplare, scevro da eccessivi moralismi e incentrato esclusivamente sull’incedere del racconto, senza dare adito a personalissimi (e quindi inutili) punti di vista e senza propendere a favore di nessuno dei suoi protagonisti (aiutato in questo anche dal sontuoso lavoro attoriale di un cast semplicemente perfetto) e con l’unico scopo di indirizzare le coscienze dello spettatore verso la giusta percezione degli eventi in un perfetto cocktail espressivo che lascia stupefatti fin dalle prime immagini e che, grazie a una regia classicissima, riesce a costruire comunque una tensione spesso insostenibile.
Il risultato é un thriller psicologico quasi perfetto che perde la sua classica connotazione di scoperta del colpevole, che assume una rilevanza secondaria (per quanto possibile) e elevandosi invece a una dolorosa ricerca di una speranza capace di rassicurare e rincuorarci dalle nostre paure più profonde e nascoste.
In questo senso la parata finale del 4 Luglio, il giorno della liberazione, assume una metafora che in puro stile Eastwood dietro una patina di festeggiamenti e giubileo, forse anche vuoti nell’essenza, permangono inalterate le cicatrici profonde che albergano nell’animo umano.
Ma il film vive anche e soprattutto della straordinaria performance dei suoi interpreti, a partire naturalmente dalle interpretazioni che valsero l’Oscar a Sean Pean, come Miglior Attore protagonista, e a Tim Robbins come Miglior Attore Non Protagonista ma che trova un’eccellente resa anche nel resto del cast, da Kevin Bacon a Laura Linney, Laurence Fishburne, Marcia Gay Harden, Emmy Rossum, Eli Wallace e John Doman.
Eastwood forse non é esattamente un innovatore, il suo classicismo così purissimo può anche far storcere il naso ai grandi cultori dell’innovazione o dello stile (come se per raccontare un’ottima storia serva poi chissà che cosa) ma é fuori da ogni dubbio che sia un narratore eccellente, che spesso riesce a ottenere il massimo dai suoi attori e Mystic River (oltre ogni ragionevole dubbio, signori della giuria) rappresenta uno degli apici della sua filmografia da regista, un racconto, al pari di Million Dollar Baby o Gran Torino, di alta intensità espressiva e capace come pochi di colpire il bersaglio arrivando a commuovere lo spettatore toccando il suo io più profondo.
Bang.
VOTO: 9
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