Regia di Dalton Trumbo vedi scheda film
“I haven’t got anything. I’m just like a piece of meat that keeps on living.”
“Since you’re real alive, it’s a greater nightmare than your dreams. It would be cruel to pretend that anyone could help you.”
Joe Bonham (Timothy Bottoms), 21enne in forza all’esercito americano, viene colpito da un ordigno esplosivo nel corso di un’operazione di trincea durante la Prima Guerra Mondiale. Il risultato dell’accaduto è devastante: Joe ha perso tutti e quattro gli arti, gli occhi, le orecchie, il naso e la bocca. Viene tenuto in vita – totalmente bendato ed occultato – dai medici di campo, convinti che l’eccezionalità del caso sia tale da dover mantenere in vita il ragazzo, non fosse altro per trarne indicazioni utili su come trattare i feriti gravissimi.
Quello che non sanno è quanto la mente di Joe sia presente, per quanto sia impossibilitato a comunicare. Ed è così che Joe rivive l’ultima notte trascorsa con la fidanzata Kareen (Kathy Fields) prima di arruolarsi, rimembra la figura del padre (Jason Robards) con i suoi fallimentari insegnamenti e la sua leggendaria canna da pesca, riassapora la spensierata gioventù già indirizzata verso la professione di panettiere. Alcune visioni del giovane sembrano distorte e proiettate verso un suo ormai improbabile ritorno; il protagonista di alcune di esse è una figura cristologica (Donald Sutherland) che nulla sembra spiegarsi e nulla sembra potere contro la barbarie dell’uomo.
Joe riceve vibrazioni e informazioni tattili, ma non riesce in alcun modo a comunicare. Questo fintantoché una pietosa infermiera (Diane Varsi) sembra trovare un sistema, ma chi sarà disposto ad accogliere le richieste di Joe?
"There were many times during the first 20 years of the novel's existence when I received offers for it, but I'd never let go of it, not even when I could have used the money. It's obviously the best thing I've ever done – maybe the one good thing I've done!” [Dalton Trumbo]
L’analisi di questo film parte da molto lontano e non può prescindere da un accenno alla figura del suo deus ex machina Dalton Trumbo: sceneggiatore prolifico e di grande successo negli anni ‘30 e ‘40, Trumbo conosce da oscuro protagonista gli anni insensati del Maccartismo e dei suoi annessi e connessi, finendo col pagare con ben undici mesi di carcere l’inclusione nella famigerata lista degli Hollywood Ten; il suo trascorso da attivista nel Partito Comunista degli Stati Uniti d’America fu sufficiente a farlo ritenere un sovversivo e un sobillatore, grazie anche all’attività delatoria di alcuni nomi illustri dell’industria cinematografica.
Dalton Trumbo riesce comunque a continuare a lavorare, pur dovendo stabilirsi in Messico con la famiglia, accettare compensi ridotti, nascondersi dietro un gran numero di pseudonimi. Per inciso, i Premi Oscar 1954 e 1957 al Miglior Soggetto finirono rispettivamente a Ian McLellan Hunter per “Roman Holiday” e a Robert Rich per “The Brave One”. Le statuette non vennero ritirate dal legittimo vincitore perché nel primo caso si trattava di un nome di “copertura”, mentre nel secondo caso addirittura non esisteva alcun Robert Rich: entrambi i soggetti erano opera di Dalton Trumbo.
Nonostante il senatore repubblicano Joseph McCarthy – peraltro politicamente già caduto in disgrazia da qualche anno – sia morto nel 1957 e, con lui, il Maccartismo, ci volle ancora qualche tempo affinché il tabù su certi nomi cadesse. Solo grazie a figure quali Otto Preminger e Kirk Douglas, che riconobbero il doveroso credit a Trumbo per “Exodus” e “Spartacus”, permisero al nome dello scrittore di rivedere la superficie nel 1960.
Passano gli anni e arriviamo al 1971, quando Trumbo decide di mettersi per la prima volta dietro la macchina da presa all’età di 65 anni; l’occasione è rappresentata dalla messa in scena di un suo romanzo del 1939 intitolato “Johnny Got His Gun”, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale. Ironicamente, al tempo le truppe statunitensi si trovavano già da molti anni impegnate sul fronte vietnamita.
Inizialmente doveva essere un film per la regia del grande Luis Buñuel, ma alla fine non se ne fece niente. Chissà cosa sarebbe venuto fuori dalle mani del maestro surrealista, giacché per Trumbo non dev’essere stato semplice dare una forma visiva ad un materiale del genere: “Johnny Got His Gun” è un flusso di coscienza continuo – intervallato da sogni e ricordi – di un giovane soldato americano letteralmente dilaniato dalla guerra e rimasto semplicemente un (mezzo) corpo vivente.
Film facilmente incasellabile nel filone antibellico, dunque? Non proprio: la storia di Dalton Trumbo stenta ad assumere un carattere generale e predilige una connotazione intimista, tant’è vero che vi sono delle componenti autobiografiche (l’infanzia in Colorado, il lavoro in panetteria, la morte del padre). L’alternanza fra colori e bianco e nero scandisce i passaggi fra ricordi del passato e sequenze oniriche (quest’ultime dai colori più saturi) e le scene nella clinica, dove il povero Joe Bonham non è che un corpo pensante tenuto in vita da una scienza medica insensibile e al servizio dei potenti. Non sempre questo pastiche funziona, a dire il vero: “Johnny Got His Gun” è un film intelligente, arguto e composto, ma sembra difettare della potenza registica che poteva renderlo un lavoro indimenticabile. Il messaggio, tuttavia, è chiaro: Trumbo si scaglia contro un’America ipocrita, guerrafondaia e zuccherosa che spezza i sogni dei suoi giovani, la vera carne da macello pronta al sacrificio per i grandi del mondo.
Nonostante il Gran Premio della Giuria a Cannes, tutto questo al tempo non venne granché apprezzato e l’unico lungometraggio di Dalton Trumbo finì nel dimenticatoio. Per quanto curioso possa sembrare, “Johnny Got His Gun” tornò a far parlare di sé nel 1989, quando i Metallica acquisirono i diritti del film e fruirono di ampi spezzoni di esso per girare il loro primo video per la canzone “One”.
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