Regia di Dalton Trumbo vedi scheda film
“Dulce et decorum est pro patria mori”. È dolce e bello morire a favore della patria. È così? Per Orazio, evidentemente, sì. Sono frasi come queste che hanno stimolato nella gioventù romana a presentarsi in prima linea per combattere per la propria patria. Gli intenti oraziani, chissà, forse erano pure in buona fede. Non bisogna sottovalutare l’ironia dell’autore, lo stesso del mitologico “carpe diem”. D’altro canto è comprensibile la sua visione: il valore della battaglia per i latini è molto lontano da come lo intendiamo noi, guerreggiare significava conquistare un territorio e dunque colonizzarlo non solo economicamente, ma soprattutto culturalmente. Oppure, estirpare dalla cultura soppressa quegli elementi che si potevano ben collegare all’“ideologia” nazionale. Il meglio degli altri diventava patrimonio comune (dunque universale). Certo che, però, il vecchio Orazio aveva visto lungo. Pensare che in tempi contemporanei tale pensiero crei ancora “adepti” è curioso. Un esempio? Il Johnny del film, che si spinge nei territori bellici proprio per aderenza alla propria patria e non tanto per aver essere stato travolto da quella droga che, per dirla alla Bigelow di The Hurt Locker, è una droga. E che, quasi a voler mettere in evidenza la subdola slealtà della massima, viene punito nella maniera più crudele: viene privato del suo essere uomo “normale”.
Intendiamoci, non è che Johnny venga condannato per il suo desiderio di battaglia: è piuttosto vittima della crudeltà di un popolo che manda in guerra in propri figli senza cognizione di causa. Johnny è ragazzo smarrito in sé stesso, sprovvisto di punti di riferimento sociali ai quali appigliarsi per evitare l’orrore della guerra. La trincea sembra essere il suo inevitabile sbocco. E dalla trincea si esce o vivi o morti. Come ne esce Johnny? Né vivo, né morto, ma in quella condizione di stallo esistenziale di straziante straordinarietà umana: privato di occhi che possano vedere l’orrore, di naso che possa odorare l’odore della polvere da sparo, di orecchie che possano udire il rimbombare dei cannoni, di bocca che possa proferir parola sull’indecenza dell’uomo, gli rimane – fortunatamente? – il midollo, che gli permette quindi di elaborare pensieri. Ed ecco che nel suo peregrinare mentale alla ricerca di una definitiva situazione ci accompagna tra passato e presente, sogno e realtà: dal rito d’amore consumato prima della partenza ai ricordi del padre pescatore della domenica, arrivando infine ad allegoriche simbologie sull’amore perduto ed asfissianti annegamenti tra relitti umani. Relitto è, Johnny, dell’insania dell’uomo di fronte alla follia della guerra: ne è il simbolo sconsolato, disperato, torturato, martoriato, “un aborto di Natura in una sfilata di Carnevale”. Interrogandosi sulla presenza di un Dio al quale si credeva senza esitazioni, Johnny affronta l’inverno della sua vita con tragico coraggio.
Si parla del passato, del primo conflitto mondiale, ma gli occhi – e la mente – sono rivolti al presente vietnamita. È il film più universale che si sia mai realizzato contro la belligeranza, l’ultimo grido di furiosa malinconia contro l’arroganza del potere bellico. Grazie ad un montaggio di spudorata bellezza emotiva e poetica, freneticamente febbrile nella rappresentazione del martirio, Dalton Trumbo esordisce alla simpatica età di sessantacinque anni sentendo il dovere civile, etico, morale, storico di raccontare una storia necessaria, cruda, intensa, spietata. Se le rarefatte illusioni del sogno si caratterizzano per una certa alterazione sensibile, il duro bianco/nero della realtà dona sprezzante le giuste ed intollerabili emozioni. E quando la luce del sole (un Dio che non batte più un colpo per chissà quale motivo) non illumina più il corpo mutilato dell’anima lacerata, la lacrima amarissima scende giù. Indispensabile, da non perdere.
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