Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Si poteva sapere anche in altri modi, probabilmente, ma da fonti sicure, come Mark Cousins in "The Story of Film - An Odyssey", scopriamo che la regia di Van Sant per "Elephant" è direttamente ispirata al punto di vista dei personaggi di videogiochi come "Tomb Raider", un punto di vista che segue i personaggi imperterrito e con una fluidità (conferita nel film dalla steady-cam) davvero ipnotica. E' così che quando entriamo in questo mondo visivamente illuminato del capolavoro di Van Sant subito ci accorgiamo che qualcosa non va, dalla macchina che sbanda e percorre volontariarmente le aiuole, dal bizzarro e straniante vuoto di certi momenti morti in cui personaggi vengono tallonati dentro kubrickiani corridoi scolastici, fino alla lenta e straordinaria sequenza, tutta in movimento, in cui il killer-adolescente pronto a far fuoco sui suoi compagni di scuola suona "Fur Elise" al pianoforte come se intonasse il suo ultimo canto del cigno prima di far affondare sé stesso e gli altri nell'oblio della morte. Il mondo di Van Sant è dopotutto freddo, alternativo, ma sorprendentemente realistico, pieno di stasi e di immobilità, dove il tempo che scorre sembra trascinarsi stancamente in una quotidianità tutta risaputa, in una superficie esistenziale che ci acceca, a causa della quale non vediamo quel gigantesco elefante che è la premonizione della morte, e che quindi cela destini imprevedibili. Le insidie della realtà.
Tutta la realtà del film è attraversata dalla morte, dalla sensazione (e anche coscienza) incombente che stia per succedere qualcosa, dallo sforzo sovrumano di salvare almeno moralmente personaggi banali e di tutti i giorni che diventerrano vittime di un'eccezionale tragedia. Lentezza e momenti morti quasi jarmuschiani si riempiono di sensazione pura, di puro cinema, di pura immagine, e percorriamo con i personaggi i corridoi mettendo a fuoco il fondo solo quando lo mettono a fuoco i personaggi, come se non sapessimo (ma in fondo sappiamo) dove stiamo andando. Entriamo in quell'atmosfera tesa e inquietante, che senza l'ausilio di alcuna musica ci terrorizza.
Questo straordinario film, quasi la giustificazione artistica di "Bowling a Columbine" di Michael Moore, ci infila nell'inferno della realtà, senza provocarci, ma shockandoci con nulla, materializzando i fantasmi delle nostre paure, concretizzando visivamente la leopardiana "queite dopo la tempesta". In questo senso l'organizzazione temporale confusa e disordinata, seppur seguita con meticolosa attenzione, non è di poca importanza, né è un mezzo narrativo per rendere più avvincente la storia: si tratta bensì di un'analisi più approfondita del fato, del destino negativo che unisce tanti individui in un'adolescenziale solitudine, e comporta una visione a 360° di una tragedia. Senza dunque perdere di vista l'intento illustrativo della tragedia del liceo di Columbine, Van Sant dà anche una straordinaria lezione di narrazione, di cinema, di vita.
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