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Hot Milk

Regia di Rebecca Lenkiewicz vedi scheda film

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La recensione su Hot Milk

di EightAndHalf
4 stelle

 

Almería è una città andalusa famosa per le tapas, per la gastronomia in genere e per essere stata set di alcuni spaghetti western di Sergio Leone. Che c’entra tutto questo con Hot Milk? Beh, non solo il fatto che proprio Almería è il palcoscenico dell’incubo “matrifobico” di Sofia (Emma Mackey), che deve occuparsi della lamentosa madre Rose (Fiona Shaw) paralizzata forse per un reale male o forse per un’ipocondria eccessiva e debilitante, ma anche per il fatto che la misteriosa Ingrid (Vicky Krieps), che compare con curiosa musica esotica a Sofia sulla spiaggia come in un miraggio, arriva proprio a cavallo, come in un western. Seguono anche altri sguardi western, infatti, ma a sparare sono le pistole del desiderio escapista e della voglia di fuga, non quelle fisiche e reali fatte di polvere da sparo, altrimenti sparerebbero subito come risultato violento di isterie annesse e connesse.

 

Il desiderio di fuga suddetto non sortisce l’effetto ambìto perché quasi tutto sembra riportare sempre e inevitabilmente, per quanto lei possa andare lontana, alla storia personale di Sofia e della madre antropologa, un coatto eterno ritorno che lascia ogni attrazione che guarda altrove irrisolta, anche quando sfogata in un veloce rapporto orale all’aperto o in un lungo bacio appassionato avvinghiate sul letto. È lo stesso irrisolto di un film che non sa decidersi su tono, timbro, umore e odore: c’è un occhio al grottesco divertente affidato alle battute della compulsiva Rose, c’è un occhio ai turbamenti erotici di Sofia nei confronti di Ingrid, e poi c’è un altro occhio al tentativo di Sofia di specchiarsi e comprendersi ri-incontrando un padre assente da tempo e interrogando il passato di una madre che è già in sé stessa un labirinto di realtà e finzione. 

 

Peccato che alla fine non sia un’irresolutezza produttiva, quella del film di Rebecca Linkiewicz che con questo film esordisce alla regia, visto che Hot Milk patina tutti i vuoti atmosferici con amenità superficiali e si tiene a una paradossale distanza di sicurezza, peccando rumorosamente di ignavia. E quindi alla fine non ci si turba, si ride poco, si riflette anche meno, si rimane sotterrati sotto la coltre di dietrologie pseudo-psicologiche (traumi, traumi, ancora traumi) che anchilosano i personaggi incastrandoli in macchie nette e senza mistero. Finte ambiguità.

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