Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
AL CINEMA
Il potere solidale e consociativista delle donne è un tema ricorrente nel cinema della tolleranza e della multietnicità di Ferzan Ozpetek, così come immancabili appaiono i momenti di costruttiva convivialità che si esprimono in pranzo sulla terrazza o, in particolare stavolta ,in saloni di sartoria ove si condividono teglie di polpette e lasagne al forno preparate dalle cinque di mattina dalla devota e zelante, materna e comprensiva ex soubrette di varietà Silvana (Mara Venier in un ritorno al cinema piuttosto poco scontato, qui impegnata in una parte, in fondo, più azzeccata rispetto molti altri ruoli nel film).
Entro un microcosmo che è la sartoria di alto livello fondata dalle tenaci Alberta e Gabriella (Luisa Ranieri e Jasmine Trinca), la vita procede secondo regole che paiono inflessibili come in caserma, ma che nascondono un senso di protezione che ricorda una sorta di famiglia allargata e non meno protettiva.
Secondo il tipico marchio di fabbrica Ozpetek ormai noto.
Il vero problema di Diamanti non è tanto il voler trasformarsi in una summa del pensiero del suo autore, attore...si stavolta pure quello) e regista, oltre che sceneggiatore assieme a Elisa Casseri e Carlotta Corradi.
Il problema vero del più recente film di Ferzan Ozpetek è la bulimia di una narrazione che non conosce freni a mira a raccogliere schematicamente ogni risvolto di tipologia di dramma umano scagliandolo addosso ad una umanità femminile che diviene stoicamente l'emblema di una forma di eroismo e sopportazione delle avversità, tale da meritarsi un angolo considerevole di paradiso.
Non contento di sondare violenze domestiche tra le più turpi (ma anche scontate) immaginabili (Milena Mancini vs. Vinicio Marchioni e il pozzo risolutore), ma anche drammi privati di madri con figli depressi (Minaccioni), madri single costrette a svendere presunti gioielli di famiglia per sostenere le spese necessarie al mantenimento dei pargoli (Ferzetti), amori clandestini di donne non più acerbe per colleghi più giovani (Savino), fragilità di costumiste da Oscar che nascondono una latente scarsa considerazione di sé stessi (Valeria Scalera è, senza il minimo dubbio, la più brava tra tutta la folla di prime donne in questione), una scaltra e pungente Fausta (una Geppi Cucciari che, più che recitare, è la summa di sé stessa)promotrice del potere mutualistico del cosiddetto "vaginodromo", il regista di origini turche ci infila anche il film nel film.
Non solo si autocita, ma si interpreta nell'atto di concepire l'opera, studiando a tavolino i vari personaggi sia per sfaccettarli, sia per decidere come sfruttare il parterre significativo di interpreti adoranti, ed assegnare ad ognuna di loro il ruolo più adatto.
È qui il regista sbrocca senza contegno né un pizzico di umiltà, se si considera che nemmeno un Fellini osava raccontarsi se non con la complicità di un suo attore feticcio come l'indimenticato Marcello.
Ma anche le ampollose svolte drammatiche degne di una soap...turca, non a caso, appaiono fuori controllo, senza una direzione compiuta su una materia che è come un vulcano in eruzione che esplode e travolge tutto in un melodramma esagerato, e ove l'ambizione di trattare ogni tipologia di dramma o disgrazia altrui finisce per trasformare una materia già tendente alla farneticazione generalizzata, e quindi inevitabilmente banalizzata, in un concentrato troppo poco verosimile di drammi che si accavallano uno sull'altro senza misura, quasi fuori controllo.
E gli uomini, restano manichini, bellocci quanto ebeti, che paiono usciti da uno spot di un profumo di Jeans Paul Gautier.
Meri fuchi da riproduzione o di pura funzione estetica, utili come cornici sinuose, e nel cui ruolo risibile e bidimensionale, meno si esprimono, meno danno contribuiscono a provocare.
Luisa Ranieri si erge sopra ogni cosa, e sgrana gli occhioni in espressioni al limite della comicità involontaria, ostentando una scorza dura la cui precarietà è già evidente su ogni inquadratura che la coinvolge.
Il cinema e il teatro, attraverso le loro rappresentanti in costante rivalità (Signoris vs. Smutniak), riescono pure loro a trovare una soluzione che garantisca il "volemose bene" perché non esiste dramma che non abbia un risvolto tollerante nel cinema del regista turco.
Il colpo di genio si sfiora col "personaggio che non esiste", e che Ozpetek regala ad Elena Sofia Ricci, salvo poi ripensarci e farla apparire, rovinando tutto, svilendo quel ruolo sulla carta magnifico e rompendo il presunto incanto, in un finale posticcio quanto ridondante che sarebbe stato decisamente più saggio evitare.
L'abito del gran finale lo si confeziona in dieci minuti, tra una polpetta e una forchettata di lasagne, ed il risultato esteticamente è qualcosa di molto vicino all'horror puro, o alla pacchianata senza precedenti.
Ma una per nulla inimmaginabile nota autobiografica si pone come ciliegina su una torta ridondante e magniloquente, tra svolazzi di tessuti porpora e l'ugola prorompente di Giorgia (dopo l'immancabile Mina e pure Patty Pravo) a celebrare i fasti di un polpettone esagerato che si presta ad essere servito come una sorta di piatto portante e altamente saziante lungo una affollata cena in terrazza di una moderna famiglia allargata formato Ozpetek.
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