Regia di Robert Zemeckis vedi scheda film
“Here”, l’ultima fatica di Robert Zemeckis, è un film piacevole, interessante e ben realizzato. Un’opera poetica, che affascina e fa riflettere. E’ cinema allo stato puro; ma soprattutto è una struggente meditazione sulla finitudine dell’essere umano, sul passare del Tempo e sull’inafferrabilità di ogni momento.
«Se ti va, potresti passare il resto della serata qui»,
«Potrei passare il resto della mia vita qui».
Basata sull'omonima graphic novel del 2014, capolavoro di Richard McGuire, "Here", l’ultima fatica di Robert Zemeckis, è prima di tutto una “sperimentale” ed interessante esperienza cinematografica, poi un coinvolgente ed affascinante flusso ininterrotto di immagini in sé godibili.
Dopo 30 anni vediamo felicemente riuniti in “Here” la stessa troupe che fece il successo di “Forrest Gump”: Zemeckis alla regia, Eric Roth alla sceneggiatura, Don Burgess alla fotografia, Alan Silvestri alla colonna sonora, Tom Hanks e Robin Wright nei ruoli principali, Randy Thom al suono e Joanna Johnston ai costumi.
Interamente realizzato da un unico punto di vista, quello di un piccolo lembo di terra, “Here” mostra e racconta tutto quel che di grandioso o meno accade e si avvicenda intorno a quel medesimo punto in milioni di anni. Una coesistenza di momenti diversi, come se sovrapposti l’uno sull’altro e che visti in prospettiva creano l’esperienza dello spazio.
Si passa dall’era dei dinosauri a Benjamin Franklin, dall’epoca del popolo indigeno Lenni-Lenape ad alcuni avvenimenti che hanno segnato il XX secolo. Alcune vicende, come quella dei due nativi americani che si conoscono e hanno un figlio nella foresta, vengono solo accennate; altre invece sono più approfondite.
La sceneggiatura si concentra soprattutto sugli ultimi cinquant’anni del 1900, mostrandoci l’intrecciarsi delle vite di alcune famiglie (quella di un aviatore; quella di un inventore di una poltrona reclinabile; quella di una coppia di afroamericani con figlio; e quella di un reduce della Seconda Guerra Mondiale, gli Young) con gli eventi storici e culturali americani più cruciali.
La maggior parte della pellicola invece si ambienta all’interno di una casa dove si (sus)seguono le vite dei suoi inquilini (John Harter e la moglie Pauline; la coppia Leo e Stella Beekman; Devon e Helen Harris; e soprattutto la famiglia Young – quella col personaggio di Tom Hanks a cui si unirà Robin Wright – dal dopoguerra agli anni 2000, dalla generazione dei genitori fino a quella dei nipoti).
Quest’ultima famiglia, benché frammentario, ha comunque un suo sviluppo, una progressione ben definita negli anni, e riesce a catturare la curiosità dello spettatore.
LE CARATTERISTICHE FORMALI DEL FILM E I SUOI ASPETTI TECNICI
“Here” è una pellicola che ha per protagonista assoluto il concetto fisico dello spaziotempo (o cronòtopo) “osservato” nella sua più comune duplice distinzione, il Tempo (o meglio, il suo scorrere illusorio e nella prospettiva degli accadimenti terrestri – in questa pellicola dall’epoca dei dinosauri ad oggi), e lo spazio (o meglio, un luogo ben preciso degli USA, il New England, che ha visto succedersi durante l’arco narrativo della pellicola vari eventi micro-storici e macro-storici; ospitando cose, animali, persone, famiglie, soggetti viventi e oggetti inanimati; ma soprattutto una serie di fenomeni, da una parte dotati di una loro oggettività e dall’altra fuori dalla realtà sensibile: le sensazioni, i sentimenti, gli stati d'animo); ma anche altri autentici protagonisti: la memoria/il sapere/lo scibile umano, da una parte; e l’inafferrabilità del tutto, l’ombra della caducità, dall’altra.
Il regista Robert Zemeckis (che ha anche prodotto e co-scritto la sceneggiatura con Eric Roth) sviluppa la pellicola interamente in un unico luogo e, come nel fumetto originale e mediante una narrazione non lineare, ci mostra una serie di vicende che si estenderanno nel tempo all’interno di uno scenario fisso, di un’inquadratura unica e fissa per l’intera durata dell’opera.
E’ l’aspetto più ambizioso e “sperimentale” (retro-avanguardistico in questo caso) di un regista che da sempre nella sua carriera ha provato strade inedite, ha cercato di stupire lo spettatore, cimentandosi con nuove tecnologie, spingendo i confini dell’arte cinematografica con un tecnicismo avanguardistico (basti pensare alla perfetta commistione di live-action e animazione in “Chi ha incastrato Roger Rabbit”; o all’innovazione data al cinema d'animazione attraverso l'utilizzo della performance capture con “Polar Express”, “La leggenda di Beowulf” e “A Christmas Carol”; o all’innovativo uso della CGI in “Forrest Gump”), che anche in questa sua ultima pellicola non viene a mancare, ed anzi spicca notevolmente il livello tecnico e stilistico, il quale (quasi) mai oscura il pathos delle vicende mostrate, narrate.
Persino l’uso dell’A.I. generativa per il ringiovanimento digitale degli attori, malgrado sollevi interrogativi etici ed artistici, qui è ben utilizzato e nella sua resa effettiva, alla fine funziona e non è troppo invasiva o risultante grottesca e imbarazzante come riportato da alcuni critici americani.
Sono dettagli fondamentali nella realizzazione di “Here”, funzionali (e con esiti efficaci) non soltanto al suo intero impianto formale/visivo, ma anche a quello concettuale e tematico.
IL CINEMA COME FINESTRA SULLA REALTÀ E SGUARDO SULL’ESISTENZA
La prospettiva singola che non cambia mai, mentre quel che la circonda sì, è affascinante e a suo modo innovativa e ammaliante: rimanda automaticamente da una parte “all’impostazione teatrale” finalizzata però al linguaggio cinematografico (per il focus sulla messinscena ben progettata a priori e a sua volta descrittiva a livello narrativo), e dall’altra ai primi film muti della Storia del Cinema.
“Here” ci riporta agli albori del Cinema quando non era ancora stato inventato il linguaggio del montaggio, però al contempo ci lancia verso il futuro in un territorio inesplorato dove la struttura narrativa è sapientemente modellata da un complesso uso del montaggio: un montaggio elaborato che, tra alternanze temporali, posizione e movimenti degli attori all’interno dell’unica ambientazione, riquadri che si aprono per mostrare momenti di epoche diverse, precisa gestione della profondità di campo e della messa a fuoco, coinvolge lo spettatore in un’insolita esperienza visivamente stimolante, magnetica ed eccitante.
E’ dunque un approccio registico che privilegia sicuramente l’innovazione visiva, ma che sa restare fedele sia all’impostazione della graphic novel su cui si basa, sia all’anima della pellicola – perché la sua bellezza estetica e stilistica non va mai a discapito dell’impatto emotivo e del cuore pulsante di ciò che vuol esprimere a livello narrativo, concettuale o connotativo l’opera stessa.
Film come questo composti da una sola inquadratura, totalmente realizzati da una prospettiva singola, da unico punto di vista (quelli di una cinepresa posizionata e accesa in un punto ben preciso e lasciata lì a riprendere ciò che le accade davanti), sembrano che sconfinino con altre tipologie di opere d’arte (pitture, fotografie, graphic novel, appunto…) per il loro reale o apparente uso estremizzato del long take.
A tal riguardo, anche senza scomodare i primissimi film muti, i riferimenti meno datati possono essere le pellicole “Sleep” (1963) ed “Empire” (1965) entrambe dirette da Andy Warhol, dove un unico soggetto veniva ripreso per ore da una cinepresa fissa in un unico punto; o il caso ancora più estremo, il film “Blue” (1993) diretto da Derek Jarman, dove il soggetto “dell’unico long take” è diventato addirittura un solo e lungo fotogramma di colore blu (l’opera monocromatica di tonalità blu oltremare "International Klein Blue", realizzata dal pittore francese Yves Klein) che fa da sfondo alla traccia sonora.
Esempi eloquenti di come l’esperienza cinematografica davanti al grande schermo riesca ad essere travolgente, intensa; e riesca ad esprimere molto in sé anche al di là di ciò che ci viene mostrato e non, che sia in movimento percettibile e non, da un unico obbiettivo posizionato a lungo su un determinato sfondo.
Nel film di Zemeckis questo sfondo non comprende soltanto oggetti-soggetti (cose, persone, altro), bensì anche e soprattutto un arco narrativo, un arco narrativo incluso in un arco temporale molto amplio (dalla preistoria agli anni 2000), ma la sostanza non cambia: lo spettatore è per tutta la durata del film “costretto” a contemplare quell’unico spazio e ciò che ospita nel passare degli anni.
L’occhio dello spettatore è catturato dalla natura fortemente immersiva di questo piano fisso, è assorbita quasi ipnoticamente da quest’unica location, e diventa quasi parte di essa. Che si tratti del paesaggio preistorico, dell’ambiente esterno dove sorge la casa, o l’interno di quest’ultimo luogo, lo spettatore è come se si sostituisse all’obbiettivo della cinepresa e avesse modo di circoscrivere, confinare lo sguardo, focalizzandosi bene sui vari dettagli estetici, decorativi, descrittivi della messinscena e delle immagini evocanti aspetti narrativi e tematici emozionanti e riflessivi.
Lo spettatore non si limiterà quindi soltanto a vedere, ma anche a guardare, osservare con attenzione, soffermandosi con insistenza su tutto quel qualcosa e quel qualcuno che gli viene mostrato nel loro divenire.
La ripresa angolata e fissa rimanda a ciò che è in-quadrato: è esso che è rilevante e che merita maggiore attenzione, mentre tutto ciò che è fuori di questo “quadro” ha minore importanza o perlomeno “non merita” molte attenzioni da parte dello spettatore (nel caso specifico di questo film, il fuoricampo è caratterizzato da aspetti di incertezza, dubbio, o legato ad esperienze mai vissute dai personaggi).
Un dato chiaro, semplice, quasi ovvio e banale, eppure essenziale nella sua impostazione, manifestazione e finalità cinematografica.
L’obbiettivo della cinepresa sembra quasi assomigliare ad un soggetto che al contempo è interno ed esterno a quest’unico punto di osservazione: è come se fosse uno scienziato o un artista, persino un ente o un’entità qualsiasi che negli anni osserva (da) questo punto specifico del nostro mondo per poterlo analizzare (come farebbe ad esempio un biologo, un etnologo, un antropologo, uno storico, un sociologo, e simili). O semplicemente per poterlo catturare nella sua quintessenza (come farebbe ad esempio un artista, un pittore, un fotografo, un poeta, un regista, e simili). Ed è appunto in questo aspetto che risiede la magia (struggente) dell’ultimo film di Zemeckis: cosa fanno un pittore o un fotografo se non catturare su tela o su pellicola ciò che si presenta davanti ai loro occhi in un determinato punto del globo terrestre sul quale decidono di fermarsi, soltanto al nobile fine di immortalarlo, di rubarlo dalle trame quadrimensionali per riversarlo su un qualcosa di materiale che donerà al prossimo, per far si che venga ammirato, contemplato e destinato al futuro?
Nel caso di questo film però si “immortala” (persino) ciò che è in movimento e in trasformazione nel corso del tempo.
Estrapolare dal passato ciò che è accaduto di bello e importante in un punto preciso del mondo per poterlo conservare e consegnare al futuro, come un dono prezioso/utile indirizzato agli uomini nel cammino verso il loro miglioramento. E’ questo che pare faccia in filigrana “Here”. E’ questo che fa Zemeckis. E’ questo che avidamente e ambiziosamente vorrebbe poter fare l’essere umano: il suo più inconscio desiderio, quello di arrivare a trascendere i limiti spazio-temporali, sfidare e violare le leggi fisiche e naturali che lo formano, finanche trascendendo se stesso e la propria condizione; magari anche liberandosi dalle catene del Tempo per cristallizzare ogni accadimento in una dimensione atemporale, se mai fosse possibile.
Il quadro di quel pittore, la fotografia di quel fotografo, o il film di quel regista, stanno lì apposta a cogliere, testimoniare e valorizzare la fragilità e la preziosità di tutto il Creato, di tutto ciò che è fisico e metafisico; e più in particolare a rendere in una equivalente consistenza l’Uomo e le sue vicende; e soprattutto a dar il doveroso risalto alla finitudine degli uomini, e di qualsiasi altro essere vivente, e di cose animate o meno, che abitano/hanno abitato/abiteranno questo nostro pianeta…
Ma la cornice del quadro o i bordi di una foto o di un’inquadratura filmica nella loro forma chiusa, inevitabilmente evocano anche altro. Evocano paradossalmente anche il loro contrario, un punto di fuga (possibile o impossibile), e cioè la necessità di oltrepassare perimetri e superare le pareti che li contornano. E così per contrasto, e seppur ormai abituatosi a quell’unica angolazione, lo spettatore non potrà ignorare a lungo il serpeggiare in lui della curiosità di sapere cosa si mostrerebbe ai suoi occhi se solo si spostasse verso altri punti spaziali. Non potrebbe ignorare nemmeno la necessità di vedere, oltre il Tempo e lo spazio concessigli, cosa accadrebbe.
E in tutto ciò si pone la natura umana, contraddittoria nella volontà di chiudersi in una “forma” sempre più (de)finita e al contempo di esserne priva, svincolata; aperta al potenziale illimitato, in(de)finito.
A tal riguardo, si dovrà attendere la fine del film. Come si fa a non provare un’emozione, un senso di libertà, di leggerezza, quando l’angolazione cambia e la cinepresa si sposta, si muove, si alza in volo, per cambiare la prospettiva, per svelare l’altra parte della stanza, fino ad uscire dalla casa per inquadrarla dall’esterno?
Tra i tanti significati allegorici che la suddetta scena contiene, uno di essi è proprio questo concetto di elevazione umana, di voglia di miglioramento, di cui si è parlato precedentemente.
L’Uomo osserva finalmente se stesso con occhi nuovi...
E ora, soltanto ora, sarebbe inoltre capace di far affermare, influire e incidere pienamente il proprio Io sul mondo, facendo uscire all’esterno ciò che di autentico possiede interiormente; per smettere di farsi spesso condizionare/influenzare negativamente; per cessare di assorbire passivamente dentro di sé quel che gli proveniva da fuori, il più delle volte mai accettato veramente.
L’obbiettivo della cinepresa esce quindi dal salotto e dalla casa in cui era inchiodato da molto, per vedere quella stessa casa dall’esterno.
LA FIGURA-CHIAVE DELLA CASA, TRA PSICOLOGIA E ALLEGORIE ESISTENZIALI
La figura della casa, in psicologia intesa come allegoria dell’interiorità di una persona (e non soltanto ambiente domestico diversamente arredato da chi lo abita, e che a sua volta indica e rivela molto su costoro e sugli usi, i costumi, la cultura di un popolo e l’epoca da loro vissuta), diventa in modo ambivalente l’ambiente in cui (voler) restare, ma anche da cui (voler) fuggire.
Nel film, la finestra grande della stanza che da sul quartiere, non a caso ha delle “sbarre” che rimandano ad una gabbia; e poi il divano, il salotto, a loro modo rassicuranti e accoglienti possono anche assumere una connotazione negativa, offrire una sensazione di malessere, di “claustrofobia esistenziale” vissuta dagli stessi “protagonisti”; come se anche loro, sempre concentrati a raggiungere un certo futuro di grandi aspettative, sogni e personali realizzazioni, avessero inesorabilmente ripetuto un eterno passato, rimanendo intrappolati all’interno di una prigione, di un qui e di un’ora che avrebbero voluto diverso.
Bisognerebbe, se mai fosse possibile, rituffarsi nel flusso delle cose, e poi riprendere il cammino, reindirizzare se stessi e il corso degli eventi verso la direzione stavolta ritenuta più giusta per sé e/o magari migliore anche per tutti/o (emblematica è in tal senso la sequenza, carica di tanti significati allegorici, relativa ai filmini familiari proiettati sul lenzuolo bianco che lo spettatore vede scorrere all’incontrario); ma il Tempo scorre veloce e soltanto verso una direzione per l’essere umano (e non è possibile violare il principio dell’entropia), e anche questa quarta dimensione, diventa quindi per l’Uomo come una gabbia, una condanna, forse la più grande di tutte…
«Time sure does fly, doesn’t it?», «It sure does».
Lo scorrere veloce ed inesorabile del Tempo travolge i due “protagonisti”; i quali, malgrado i tanti anni vissuti si ritrovano presto anziani, e purtroppo alle prese con il rimpianto, le occasioni perdute, l’incompiutezza delle proprie ambizioni. Un tema questo molto caro a Zemeckis; parte fondamentale della sua poetica e della sua filmografia (vedi “Ritorno al futuro”, “Forrest Gump”, “Cast Away”, ecc.): l’incidenza della Storia e della sorte nelle singole vite (casualità e/o destino); l’alternarsi di famiglie e generazioni, e il (bi)sogno di cambiare, modificare le loro vicissitudini; la necessità di cancellare delusioni, amarezze, fallimenti e sconfitte di chi spesso vede infrangersi nel tempo futuro sogni e speranze che aveva in passato (vedi quelli di Richard e di suo padre prima di lui, ma anche le frustrazioni di Margaret).
La casa dei due “protagonisti”, Margaret e Richard (quella che più di tutte parla attraverso il design degli interni e che indica ogni volta il tono delle varie situazioni), si trasforma allora da metafora del Sé a metafora di un ciclo chiuso su stesso, che non riesce ad evolvere, e che si vorrebbe spezzare, modificare in meglio. Numerose sono le scene nel salotto in cui i personaggi cambiano mobili, acquistano e sostituiscono oggetti vecchi con dei nuovi, trasformano l’arredamento, rimodernano. Un esempio a tal riguardo è la sostituzione di un divano classico con un altro più moderno, in pelle e scomponibile, a sua volta figura centrale ed emblematica di molti eventi e passaggi generazionali lungo gli anni.
La vicenda di Margaret e Richard (la parte più corposa e significativa dell’intera pellicola) è quella che meglio rappresenta il fluire del Tempo e i suoi effetti sui personaggi; ed è quella fatta soprattutto di delusioni e di aspettative tradite. E’ la più umana, la più ordinaria e la più universale delle vicende umane (per il susseguirsi naturale di nascite, morti, amori, gioie e dolori, con la quotidianità, le fatiche, i successi e le sconfitte di ognuno); carica di momenti interscambiabili, di malinconia e dolcezza, di sentimento e passione, di difficoltà e inadeguatezze. La più commovente, la più riflessiva di tutta l’opera.
E’ il Tempo che ci manca, è vero, ma purtroppo siamo anche noi a mancare al Tempo, se potremmo e dovremmo viverlo più a fondo, più intensamente, meglio…
IL RITRATTO DELLA STORIA AMERICANA DURANTE IL XX SECOLO
Cambiano epoche, personaggi, oggetti e arredamenti, ma le essenze delle storie rimangono le stesse, (perché) l’Uomo rimane lo stesso.
L’esistenza di Richard e Margaret rimanda inevitabilmente anche alla travagliata storia degli Stati Uniti d’America durante il XX secolo.
Un Paese considerato la più grande potenza del mondo, terra di promesse, aspettative ed opportunità per chiunque avesse progetti, ambizioni e tanta determinazione, che però nella seconda parte del secolo ha visto perdere le proprie potenzialità.
Quell’American Dream tanto acclamato e agognato, non si è avverato, e, alla pari dei due protagonisti, ha mostrato soltanto il suo vero volto, quello dell’(auto)inganno e dell’illusione.
Lo slancio verso la novità ha ceduto il passo alla delusione; l’ardore vissuto nell’età giovanile di volersi proiettare con entusiasmo verso il futuro ha trovato solo la rassegnazione e il rimpianto del passato quando si è giunti nell’età della maturità o in quella senile.
“Here” è anche questo, è anche l’amaro racconto dell’evoluzione e dell’involuzione della società americana, l’altro grande personaggio del film, onnipresente e al contempo “invisibile”, messo in primo piano o lasciato sullo sfondo, nascosto negli oggetti di uso quotidiano o ri-trovato sullo schermo di un televisore domestico.
Questa crisi di identità di un Paese rimanda alla crisi d’identità dell’Uomo contemporaneo, oltre che di nuovo ai danni e alle beffe legate allo scorrere del Tempo (la perdita della Memoria, intesa tanto a livello personale quanto collettiva – si veda in tal senso Margaret anziana colpita da demenza senile).
Un popolo che dimentica il proprio passato, perde tutta la bellezza che ha vissuto e che potrebbe avere, e rischia di ripetere più facilmente e ingenuamente gli errori più grandi che ha commesso. E se dimentica di proposito, il rischio diventa ancora più fattivo e tremendo.
Certo, il film è la celebrazione della vita tutta, di ciò che è umano e animale; è persino una lirica dell’inumano e dell’inanimato; però ha un’anima umanistica. Il destino dell’essere umano resta comunque sotto una lente speciale. A differenza del fumetto originario che cercava di visualizzare il futuro, la pellicola di Zemeckis lascia sospesa l’immagine di quest’ultimo: non prevede cosa potrebbe accadervi, non tenta di darci un’idea di quel che potrebbe fare/rsi o non fare/rsi il genere umano, di bene e di male (fatto salvo l’eterno ritorno del passato al cui volto potremmo imprimere espressioni differenti…).
Però in modo commovente sembra che voglia scommettere su buoni esiti, perché ancora fiducioso delle reali capacità umane; ancora fiducioso in quella volontà di mettercela tutta per fare la propria parte, grande o piccola che sia, ma pur sempre in sé importante.
E sebbene finora il ritratto che è venuto fuori, ha visto il più delle volte la stoltezza offuscare la saggezza; c’è ancora voglia di amare (e confidare in) questa fragile specie, nei suoi pregi e nei suoi difetti.
Vivere intensamente e con saggezza dunque, imparando da ogni esperienza, positiva o negativa, con la volontà di poter correggere la rotta del nostro volo, quando possibile, senza paura ma con tenacia e perseveranza; proprio alla pari del colibrì golarubino presente nel film (anche se è la figura del colibrì in generale ad assumere una funzione allegorica in quanto simbolo di tutte le cose positive), che da vita e intensità alla propria breve esistenza, al proprio librarsi in volo; e che riesce a volare in avanti e all’indietro grazie alla velocità del suo battito d’ali.
Ed è per questo che sottotraccia il film ci invita a non dissolvere la memoria, individuale e collettiva, perché indispensabile strumento per la sopravvivenza del genere umano…
LA MEMORIA, L’OBLIO E LA MEDITAZIONE SULLA MORTALITA’
«This was our home. We lived here». L’importanza della memoria dunque, del sapere e dello scibile umano, in contrapposizione all’oblio, all’assenza/estinzione/scomparsa del genere umano, finché sarà possibile e fino a quando potrà sussistere questa contrapposizione.
Perché l’agire umano deve comunque fare i conti con il tema universale che tutto passa, e che tutto ciò che si fa avrà sempre dei limiti e incontrerà prima o poi un limite. Non possiamo comunque illuderci del contrario, non tutto si può oltrepassare.
“Here” diventa alla fine e in sostanza una struggente meditazione sulla mortalità, sulla caducità delle cose umane e la finitudine dell’Uomo.
L’opera cattura l'esperienza umana nella sua forma più pura pur nella consapevolezza dell’inafferrabilità dei vari momenti, anzi, è proprio questa inafferrabilità dell’istante che si vuol esprimere.
Quando Richard e Margaret anziani sono seduti nel vuoto della stanza, la scena ci invita a ripensare e a ridimensionare il nostro essere qui al cospetto dell’eternità, o peggio ancora al cospetto dell’oblio, del “nulla”. Se anche la memoria è fallace, fugace, caduca; se l’Uomo è comunque destinato alla morte/ estinzione/scomparsa, cosa resterà alla fine, se non l’oblio che tutto cancella?
Se persino quello stesso corpo celeste, il pianeta Terra, che sui propri continenti ha ospitato varietà di esseri viventi e l’avvicendarsi di molti accadimenti, verrà a scomparire, probabilmente assorbito da parte del Sole fra miliardi di anni; cosa resterà al suo posto se non la sua assenza?
Se persino l'intero universo potrebbe smettere di espandersi per poi iniziare a contrarsi fino a collassare su se stesso (il Big Crunch – a cui potrebbe seguire un altro Big Bang e un nuovo universo, oppure no…), e con esso anche il Tempo cesserà; cosa resterà se non il “nulla”?
L’Uomo dunque è inevitabilmente costretto a sperimentare il devastante senso di precarietà del tutto, sia fuori che dentro di lui; e a fare i conti con le conseguenze della morte e/o dell’oblio, davanti ai quali sia gli esseri, sia l’umana esistenza vengono a “perdere” di significanza e di vera importanza.
In questa nuova prospettiva, ribaltata rispetto a quella iniziale, “Here” si fa toccante invito. Invito a non dimenticare ciò che non si dovrebbe mai dimenticare o trascurare: quello di vivere il più intensamente e pienamente possibile il nostro esistere qui e ora.
E’ certamente una cosa ovvia e scontata, ma anche la più vera, la più difficile da concretizzare, e la più procrastinata dall’essere umano.
Se l’ultimo film di Zemeckis ci regala un’innegabile ed intensa emozione, è proprio quella connessa a questo sincero e convinto invito rivolto a tutti gli spettatori: il dover valorizzare, “eternizzare” l’istante; il voler trovare l’eternità in ogni attimo che ci è concesso di vivere, perché tutto è destinato a passare…
Ma “Here” di emozioni ne offre tante, perché è un film ben realizzato, riuscito, piacevole da vedere; ed è molto di più di quel che potrebbe apparire da una sua prima visione/lettura.
Ingiustamente stroncato dalla stampa americana (che gli ha soprattutto rimproverato la mancanza di profondità delle singole vicende umane, l’eccessiva frammentazione, l'aspetto visivo che sacrifica totalmente quello narrativo, meccanicità, ecc.), in realtà, al di là di questi fondati o infondati giudizi critici (per il sottoscritto parzialmente immotivati; e invece il film raccorda al meglio sia la tecnica che l’aspetto narrativo, sia lo stile che l’impatto emotivo), è cinema allo stato puro.
E’ una pellicola interessante ed affascinante; che a suo modo coinvolge, stupisce, commuove e fa riflettere.
Ma è soprattutto un’opera poetica che ci fa assaporare la gioia di esistere e di essere ancora vivi; l’incanto nel contemplare la meraviglia e il mistero prezioso di tutto il Creato; e soprattutto il piacere di saperci ospiti, seppur per breve tempo, di un minuscolo pianeta sperduto nell’immensità dell’universo, la nostra casa, dalla cui finestra osserviamo il cosmo.
Che incommensurabile e preziosa fortuna essere (stati/ancora) qui…
CURIOSITA’:
1) Il film di Zemeckis è basato sul fumetto "Here" di Richard McGuire. Quest’ultimo fu pubblicato per la prima volta come striscia su una rivista di fumetti nel 1989 e ampliato dalle sue iniziali 6 pagine in una graphic novel di 304 pagine nel 2014.
2) Tom Hanks e Robin Wright tornano a recitare insieme da “Forrest Gump” (1994); mentre è la quinta collaborazione tra Tom Hanks e Robert Zemeckis, dopo “Forrest Gump” (1994), “Cast Away” (2000), “Polar Express” (2004) e “Pinocchio” (2022).
3) La parola "qui" viene pronunciata dai personaggi circa 39 volte.
4) Il film segna il 40° anniversario del sodalizio artistico tra il compositore Alan Silvestri e il regista Robert Zemeckis. Alan Silvestri ha scritto la musica per tutti i film del regista, tra i quali la trilogia di “Ritorno al Futuro”, “Forrest Gump” e “Polar Express”, per i quali ha ricevuto vari riconoscimenti e soprattutto la candidatura ai premi Oscar.
5) I fondatori di La-Z-Boy brevettarono un modello in legno nel 1928 e una versione imbottita nel 1930 della poltrona reclinabile presente nella pellicola.
6) La TV durante la sequenza del matrimonio trasmette “Toast of the Town” (1948), in particolare la famosa introduzione americana dei Beatles. Il primo film di Robert Zemeckis, “I Wanna Hold Your Hand” (1978) è ambientato interamente attorno a questo evento. (fonte: IMDB)
VOTO: 8
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