Regia di Robert Zemeckis vedi scheda film
Tra la fine del Cinquecento e lungo tutto il XVII secolo a livello europeo si sviluppò un genere, una categoria di opere d’arte che aveva come soggetto scene di mercato e di cucina, mazzi di fiori, frutta, strumenti musicali, accessori per la caccia. Insomma quanto di più vitale potesse esistere.
Il termine Natura morta, nato in Francia nel Settecento e poi adottato anche in Italia, indica queste composizioni come still leffen – still leben e still life in tedesco e in inglese – a significare pitture che ritraggono oggetti immobili al naturale.
Ma quanto immobili?
Il termine nordeuropeo mette in rilievo la dimensione contemplativa di queste rappresentazioni che invitano lo spettatore alla meditazione sulla caducità delle cose umane.
E allora capiamo, la vita rappresentata con i colori o con le immagini in movimento è comunque ferma, fissata, affidata al ricordo.
Singolare come il pensiero vada a questo genere pittorico guardando il film di Zemekis.
Cosa accomuna le due arti?
Il dinamismo del genere cinematografico? Non basta, ogni epoca ha avuto i suoi linguaggi rappresentativi e i marmi del Partenone non sono meno mobili dei quadri di Zemekis, le lotte tra i Lapiti e i Centauri raccontano del mito l’eterno presente in un continuum narrativo senza fine né inizio, chi s’immerge fra i riquadri della Cappella degli Scrovegni vede scorrere l'uomo nella sua fisicità ed emotività, davanti ai suoi occhi passa uno scorrimento continuo che racconta le gioie e i dolori umani, nella tenerezza del bacio di Gioacchino ed Anna si annulla il tempo e si celebra l’amore, i secoli sono un attimo e l’attimo si ferma, lo fermiamo, dobbiamo farlo. Ma dove fermarlo?
E’ l’ultimo frame del film, tenero e struggente.
E’ arrivata la vecchiaia, la testa è bianca, il corpo è lento, la mente fa fatica a trattenere la memoria e tanto ormai è sfumato. Ma quel nastro azzurro che la figlioletta aveva perso, e piangeva, piangeva. Quello era stato ritrovato sotto il cuscino del divano, e la donna lo ricorda.
Ecco, quello scorrere continuo di quadri narrativi, quel passare del tempo raccontato in decine di flash mobili, scene spesso quasi sovrapposte, vitali o malinconiche, allegre o tristi, i Natali, gli alberi e i pranzi affollati del Ringraziamento, le malattie, le morti, le speranze e le delusioni, le nascite, c’è tutto in Here, ed è la vita col suo inesorabile scorrere verso la morte.
La vita degli individui e quella del mondo intero, lo spazio selvaggio alle origini del mondo, brontosauri (o chissà quali animali mostruosi) scappano, le zolle fangose ribollono, il fuoco brucia, ondate gigantesche coprono la terra, e poi la natura germoglia, Adamo ed Eva (così chiamiamo i due nativi che parlano la lingua delle origini) scoprono l’attrazione uomo/donna, arriva l’oggi e non cambia molto, ci si veste in altro modo, s’inventa la televisione, i compleanni si festeggiano e tante foto si scattano.
Lo spazio è sempre lo stesso, tutto succede lì, in una grande sala con caminetto e finestrone sul fondo. Agenti immobiliari fissano il prezzo, c’è chi compra e resterà lì a vita, chi se ne andrà verso nuovi orizzonti, questa è la famiglia, la sacra istituzione del genere umano che Robert Zemeckis alla cinepresa, Tom Hanks e Robin Wright in scena ed Eric Roth alla sceneggiatura collocano nel suo spazio canonico, nel New England, in una bella casa americana con giardino, tre piani, mansarda e vialetto che porta al garage.
Dall'homo sapiens agli indigeni, passando per il Settecento fino ai coloni americani, si arriva al nucleo domestico afroamericano contemporaneo.
Mariti, mogli, figli, nonni e nipoti sono “l’allegra brigata” che chiamiamo vita, il tempo segna la cadenza, poco importa (ma è importante lo stesso) che l’intelligenza artificiale riesca a far ringiovanire Tom Hanks e Robin Wright, a monte c’ è Richard McGuire con la sua graphic novel, le trovate dovute a tecnologia avanzata ci deliziano e stupiscono, ma quel che resta del giorno, alla fine, è la malinconia del tempo che prima o poi scade.
I ricordi, queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo… diceva il Poeta.
www.paoladigiuseppe.it
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