Regia di John Ford, Stuart Heisler vedi scheda film
L’intera storia è rivissuta in flashback da Thomas Mitchell, nel consueto ruolo di medico ubriacone. Un’isoletta polinesiana è retta da un governatore ottusamente legalitario con moglie comprensiva. Un indigeno, abile marinaio, appena sposato si caccia nei guai: durante una sosta a Tahiti reagisce a una provocazione razzista e viene condannato a sei mesi di prigione, condanna che viene continuamente prorogata in seguito ai suoi irriducibili tentativi di evasione (Papillon al confronto era un pantofolaio). Dopo otto anni riesce a fuggire, torna nella sua isola, si riunisce alla moglie e alla figlia (che ancora non conosceva). Il governatore vorrebbe riconsegnarlo, ma arriva un uragano a spazzare via tutto. Melodramma esotico insolito per Ford, semmai con richiami a Tabù (1931) di Murnau: le ragioni degli indigeni sono presentate con una partecipazione quasi mai applicata agli indiani dei western (non parlerei, con Mereghetti, di “equanime simpatia” per le esigenze di libertà e di legalità). La conclusione resta leggermente ambigua: il governatore lascia andare il protagonista perché, di fronte al disastro, ha compreso l’insensatezza della propria rigidità oppure soltanto per ricambiare il favore di avergli salvato la moglie? Oltre al finale catastrofico è notevole la parte carceraria, risolta con una serie di scene brevi e lunghe ellissi.
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