Regia di Ameer Fakher Eldin vedi scheda film
Il depresso Munir, ormai indifferente a qualsiasi stimolo lo circondi, si reca in un’isola dove potersi suicidare in santa pace, tormentato dalla fiaba che le raccontava in passato la madre ormai affetta da Alzheimer. Sull’isola incappa in una realtà provinciale vagamente razzista che potrebbe incoraggiarlo nelle sue intenzioni più nere, ma il rapporto sempre più affettuoso con l’albergatrice Valeska (Hanna Schygulla) potrebbe invece portarlo a rivalutare la vita. La trama sta in una manciata di parole, e non arriva a svilupparsi nemmeno quando si parla del rapporto fra Munir e il figlio di Valaska, Ali, forse un’amicizia o forse un’attrazione. Tutto il resto (124 minuti di durata) è la contemplazione di un luogo, che guarda di riflesso Munir (lo fissano pure le mucche e le pecore) prima come apparente gesto giudicante e discriminatorio, poi come abbraccio accogliente nonostante le asperità della natura. Infatti l’isola è in effetti un atollo, e le case sorgono su cumuli di terra per riuscire a restare in superficie anche con l’alta marea.
La svolta è quando l’assedio delle acque smette di corrispondere al cappio metaforico che stringe il collo e la vita di Munir, ma diventa la generazione spontanea dei confini di una tana temporanea, dove Munir può rifugiarsi. Tedioso ed entusiastico nelle sue amene citazioni allo slow cinema - soprattutto Béla Tarr - Yunan è tutto quello che sembra a una prima occhiata, un trattato di tristezza patinata in cui la posa vale più dello spirito.
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