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Una rosa bianca per Giulia

Regia di John Farrow vedi scheda film

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La recensione su Una rosa bianca per Giulia

di (spopola) 1726792
8 stelle

Tratta da un racconto di Leo Rosten, narra l’odissea di un medico che ha la sventura di innamorarsi di una psicopatica (perdendo letteralmente la testa per l’ossessiva attrazione che prova) che lo coinvolgerà in un’avventura verso l’annientamento, costringendolo a seguirlo nella fuga verso il Messico e la ricchezza

“Una rosa bianca per Giulia” (“Where Danger Lives” in originale) doveva essere - nelle intenzioni - il trampolino per l’affermazione di Fait Domergue, un’attricetta di non eccelse doti (anche fisicamente, soprattutto a causa di un volto spigoloso e abbastanza anonimo, su un corpo comunque di tutto rispetto) che aveva dalla sua il “privilegio” di essere la “protetta di turno” (una delle tante e forse ormai irrimediabilmente in ritardo sui tempi) di Howard Huges (qui appunto in veste di produttore e mecenate) che voleva offrire alla sua nuova fiamma il viatico necessario (anche sotto il profilo della critica) che le avrebbe potuto consentire di entrare di diritto nel ristretto firmamento delle stars (chi ha visto “The Aviator” di Scorsese sa di che cosa sto parlando). Purtroppo però (soprattutto per la Domergue) le cose non andarono nella maniera auspicata e le ragioni, come sempre in questi casi, sono molteplici e inesplicabili. Immagino che una delle più determinanti che molto pesò sull’impatto immediato all’uscita dell’opera sugli schermi, sia in parte attribuibile proprio allo scarso “carisma” della protagonista, e questo al di là dei “conflitti” con il suo Pigmalione (che in ogni caso avranno sicuramente avuto il loro peso). In effetti a mio avviso qui il materiale non era di primissima qualità e nessuna spinta per quanto potente può in questi casi (almeno all’epoca era quasi sempre così) compire il miracolo (basterebbe fare il confronto con alcuni degli altri nomi che hanno segnato le passioni sentimentali del magnate – la Hepburn, la Gardner o Jane Russell fra le tante – per valutare e comprendere la differenza). La Domergue dovette infatti accontentarsi del passaggio tempestoso e fugace assimilabile a quello di una meteora nemmeno tanto luminosa alla quale fu offerta una sola occasione per emergere dall’anonimato (quella rappresentata dal titolo in esame) per naufragare poi irrimediabilmente negli affollati e più anonimi circuiti dei B-movie (io la ricordo protagonista solo di due ulteriori opere: “Duello al Rio d’Argento”, un western “classicamente corretto” che non può certo essere annoverato fra le cose più esaltanti dirette da Don Siegel, e il fantascientifico, tutt’altro che malvagio “Cittadino dello spazio” di Joseph K. Newman, che rappresenta forse il suo risultato più significativo) ed approdare poi in età più avanzata (correva l’anno 1971) da noi in Italia, per un tardivissimo recupero in un secondario ruolo di spalla (“Una sull’altra” di Lucio Fulci con la Mell e la Martinelli). Indubbiamente Huges aveva organizzato ben il suo progetto “giocando” carte importanti che non avrebbero dovuto fallire (sceneggiatura di Charles Bracket, un parterre di attori di contorno di primissimo piano compreso il protagonista maschile, e un regista abbastanza inusuale dietro la machina da presa) ma le polveri si dimostrarono inaspettatamente così “umide” da impedire la deflagrazione del botto. Oggettivamente – a posteriori – possiamo dire che le tiepide accoglienze sia da parte del pubblico che da parte della critica registrate all’epoca (ad essere oggettivi si dovrebbe definire il tutto un clamoroso flop), fu determinata da una probabile, ma più che realistica “incomprensione di fondo” derivante da una analisi solo di superficie incapace di leggere l’opera nella giusta prospettiva, e relegandola per questo fra le tante possibili – anche inflazionate – variazioni del filone delle Dark Lady che aveva espresso capolavori assoluti come “La fiamma del peccato”, “La sanguinaria” o “Detour”, tanto per fare alcuni esempi (con i quali non poteva competere) seguendo un percorso convenzionalmente conforme (ma solo in apparenza) al consolidato “stile RKO” dell’epoca. Il parziale “recupero” che lo ha fatto diventare un piccolo “cult” è in effetti successivo, ma abbastanza generalizzato e uniforme, da far pendere l’ago della bilancia finalmente a favore del risultato complessivo, e sono situazioni spesso ricorrenti di fronte ad opere per certi versi “anomale” come questa. Visto con l’ottica limitativa dello sguardo critico degli anni ’50, potremmo allora facilmente liquidarlo come un “tradizionale noir on the road”, ma non credo che adesso, nonostante l’evidenziazione dei moltissimi limiti che pure esistono, sia ancora possibile liquidarlo cosi frettolosamente, perché l’analisi attenta del risultato, dimostra che al di là della storia, c’è davvero molto di più, soprattutto nel delirante procedere quasi onirico di tutta la seconda parte, che amplifica la componente fortemente masochista dell’insieme già così presente nella sceneggiatura (e quindi percepibilissima anche nel primo troncone) piena di dettagli (all’apparenza insignificanti) di fortissima valenza psicotica (sia metaforici che realisticamente sottolineati). Il merito va ovviamente ascritto in massima parte alla regia “visionaria” di John Farrow che seppure non raggiunge i vertici delle sue tre opere maggiori, tutte comprese nel biennio immediatamente precedente (“Il tempo si è fermato”, che è certamente il suo risultato in assoluto più ragguardevole, “La notte ha mille occhi” da Cornell Woolrich e “La sconfitta di Satana”) si inserisce di diritto fra i titoli di indiscusso spicco della sua discontinua attività. Secondo alcune fonti comunque, il finale dovrebbe essere stato “rigirato” da Richard Fleicher, anche se non ho indicazioni precise e definitive al riguardo, ma poiché non si avvertono “fratture stilistiche” è ad ogni modo difficile in mancanza di precisazioni autorevoli, stabilire con esattezza quali sono le “sequenze incriminate” e allora preferisco non esprimere alcun giudizio a questo proposito. La storia è abbastanza scontata e prevedibile. Tratta da un racconto di Leo Rosten, narra l’odissea di un medico che ha la sventura di innamorarsi di una psicopatica (perdendo letteralmente la testa per l’ossessiva attrazione che prova) che lo coinvolgerà in un’avventura verso l’annientamento, costringendolo a seguirla nella fuga verso il Messico e la ricchezza, dopo aver fatto ricadere su di lui la responsabilità di un delitto. Senza denaro, sopraffatti dalla calura e dalla fatica, stravolti da un inarrestabile e progressivo sfinimento fisico che mette a dura prova la resistenza, i due amanti in fuga, finiranno per fronteggiarsi con disperato, reciproco furore, in quella che può essere davvero considerata “la scena chiave di tutta la pellicola”, un piano sequenza lungo e articolato (della durata di circa 8 minuti) che racchiude e sintetizza la lunga, interminabile attesa dell’ultima notte prima del programmato espatrio, nell’angusto spazio di una squallida cameretta di un albergo di frontiera, implacabilmente illuminato dalla intermittenza metronomicamente scandita e ripetitivamente ossessiva, delle luci al neon delle insegne che dalla strada irrompono con la discontinua prepotenza dei lampi al magnesio (creando una dimensione fortemente suggestiva, molto vicina a quella di un incubo), per concludersi poi sulla panoramica di una stanza ormai vuota, dopo che la donna sarà uscita per la sua ultima impossibile fuga, convinta di aver lasciato alle sue spalle un altro cadavere. Sarà proprio in quella stanza e in quella sequenza, che il protagonista comprenderà finalmente, quando ormai sembra che sia troppo tardi e che non esistano ulteriori speranze di redenzione, le trame diaboliche della sua poco innocente amante. L’andamento quasi espressionista dell’illuminazione, i contrasti accentuati della fotografia, rendono l’azione quasi delirante, una sensazione spiazzante, rafforzata dalle conseguenze traumatiche dovute a un deprecabile incidente, che fanno aumentare la fragilità anche percettiva del protagonista, vittima di una commozione cerebrale che gli ha procurato dolori e confusione mentale per tutto il viaggio con l’incubo ben compreso in virtù della sua professione, che se non adeguatamente curata, la “ferita” lo trascinerà inevitabilmente a una progressiva e irreversibile paralisi che potrebbe bloccargli persino la coscienza. Questo elemento aggiuntivo, ma tutt’altro che marginale nella definizione del personaggio, sottolinea ulteriormente la dimensione quasi “astratta” dell’insieme, insinuando a volte persino il dubbio che tutto ciò che vediamo potrebbe essere semplicemente il frutto di una graduale allucinazione (derivante dalla momentanea menomazione “mentale”) che apre squarci su un “mondo parallelo notturno e alterato” dove anche le incongruenze comportamentali acquisiscono una loro stringente ed essenziale logica interna. Soprattutto tenendo conto di questa analisi, il ruolo centrale “della corruttrice psicolabile” forse non è sorretto fino in fondo da una appropriata e sfaccettata recitazione dell’attrice, ma la Domergue riesce comunque ad essere sufficientemente sensuale nella sua apparente debolezza, dal rendere attendibile l’attrazione e la perversione. E’ semmai il capovolgimento finale con l’inusuale “totale assunzione delle responsabilità” dell’assassinio l’imprevisto e insolito “elemento di rottura” finalizzato forse a restituire l’umanità perduta a quella donna smarrita nelle sue smaniose frenesie alienate. Una donna che non ha scampo e che morirà tragicamente avvinghiata alla rete di quell’anonimo posto di frontiera al di là della quale ci sarebbe forse la libertà e la salvezza, ma solo dopo aver scagionato il suo accompagnatore, con una (im)prevedibile quanto improbabile confessione “redentivi” che rimette finalmente tutte le cose a posto. Della Domergue ho già parlato a sufficienza e non credo sia necessario dilungarsi ancora su di lei e sul suo personaggio. Da segnalare invece la presenza un po’ paciosa, caratterizzata da una pigra svogliatezza dei movimenti, accompagnata però da una sotterranea virilità indolente non disgiunta da una necessaria dose di disincantato distacco, di un Robert Mitchum sornione e vulnerabile (nella vita reale reduce da una non lunghissima permanenza in prigione per possesso abusivo di marijuana) in un altro classico ruolo di “ingenuo credulone” (il “maschio” sedotto e intrappolato dalle manovre bugiarde di una donna “deviata” e senza scrupoli) molto vicino a quello che sosterrà in altre due opere ancor più fondamentali di questa (“Le catene della colpa”, capolavoro assoluto di Jacques Tourneur e “Seduzione Mortale” di Otto Preminger). Accanto a loro, Claude Rains nel breve ruolo dell’anziano “antagonista” precocemente liquidato, e Maureen O’Sullivan (la Jane del Tarzan di Weissmuller) moglie del regista e madre di Mia. Un’ultima curiosità: la Giulia del titolo italiano non è il nome della protagonista, né la rosa bianca è per lei: la dark lady, come è scontato e prevedibile, adora e accetta soltanto rose rosse!.

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