Regia di Lucile Hadzihalilovic vedi scheda film
A volte per fortuna ci sono film enigma che non chiedono di essere interpretati, e che non si aspettano dallo spettatore risposte precise alle loro domande.
La tour de glace di Lucile Hadzihalilovic cerca l’archetipo attraverso una purificazione estrema: smodati i tempi morti, smaccata la chiave metacinematografica, smorto il ritmo, eppure a volte chiede di trattenere il respiro e fare un atto di fede. Lo fanno pochi film, men che meno presunte fiabe su cui si sprecherebbero i paragoni con All About Eve o The Neon Demon. Questo lo fa, ed è una scelta di campo scomoda e difficile.
Jeanne (Clara Pacini) scappa da casa, sfugge da un potenziale stupro e si nasconde in un set cinematografico in cui un regista (Gaspar Noé, marito di Hadzihalilovic) sta realizzando un estatico e silenzioso adattamento della Regina delle Nevi di Andersen. La protagonista è la capricciosa diva Cristina (Marion Cotillard), tiranna con tutta la crew e vera voce definitiva sulla riuscita del girato giornaliero. Jeanne ne subisce il fascino, e Cristina forse pure a sua volta, tanto che la seconda avvicina a sé la prima fino a renderla quasi una co-protagonista del film. Hadzihalilovic (per fortuna) non fa assolutamente nulla per dare un’univoca chiave di lettura al rapporto fra le due donne. Con una lentezza mesmerica non fa altro che inquadrare primi piani, campi/controcampi e sfilate panoramiche, sfida le tensioni fra le inquadrature e sublima l’idea del raccordo di montaggio come chance di creazione illusionistica e insensata. Cioè a dire: quello che viene dopo è effettivamente dopo ciò che sta prima?, o questo passaggio è talmente lento che mi scorderò intanto che dovevo pormi il problema?
Tanto è astratta e impercepibile l’ambizione di Hadzihalilovic che non viene affatto voglia di dare un’interpretazione al film. La ricerca di una madre assente? Un’attrazione sessuale? Una chance di ascesa sociale? Di fuga dalla mediocrità? Mentre la sostanza del film si assottiglia come ghiaccio crepato, e il raccordo di montaggio diventa esso stesso alluso e mai definitivo, è lecito che venga a noia tutta quanta quest’aria di vetro e di nevischio che percorre il film in modo indiscriminato. Ma la sfida sembra quella di un gesto autoriale estremo senza noiose connotazioni da ‘politique des auteurs”: una regia che non si vede, un montaggio che si vede ancora meno, un significato che non si può dare perché forse non c’è.
Quello che rimane è forse un trattato sulla bellezza e su quanto sia poco riducibile a parole. Su quanto sia ipnotica da far perdere i connotati a un rapporto, a un desiderio. Cristina chiede a Jeanne cosa lei voglia e Jeanne le chiede di smetterla. Jeanne sbircia dentro un modellino e vede Cristina che dorme sul set. Jeanne guarda Cristina, poi guarda uno schermo con Cristina dentro, e non c’è alcuna differenza perché resteranno l’una per l’altra immagini bidimensionali. Che forse franeranno se cercheranno di capirsi. A prescindere da binomi su realtà e finzione, qui totalmente irrilevanti.
La tour de glace è una danza a due senza pista da ballo sotto i piedi, un rapporto di coppia degerarchizzato, informe. Un film senza firma, un cristallo depositato dopo secoli e secoli di processi minerali naturali, perso in uno sguardo che ci attrae senza un perché, interrotto da azioni che sono sempre violente perché fanno inciampare l’estasi e spezzano l’ipnosi immobile. Perché non sono sguardi, non sono a distanza di sicurezza. Perché la bellezza non la risolvi in nessun gesto pratico. Un giro a vuoto che disprezza la teleologia, desidera l’abisso e condanna l'umanità alla frustrazione. Un film noioso, ma che bella la noia quando sai che la vivi perché anche l’ignoto e l’incomprensibile possono essere senza significato, un mistero che non è necessario scoprire. Bello o brutto non ha importanza, qui.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta