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Marathon

Regia di Amir Naderi vedi scheda film

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La recensione su Marathon

di Aquilant
8 stelle

Le folle frenetiche vanno e vengono tra i rumori della jungla newyorchese e tra l’indifferente impassibilità di Gretchen, la protagonista, in evidente antinomia col brulicare ed il crepitare di suoni tutt’intorno. I mostri ferrosi sfoderano tutta la grinta e la capacità di inglobare nelle loro viscere ogni parvenza che in questo mondo respira d’umano. Un’immensa estensione di coscienze in via di prosciugamento, assiomaticamente ridotta ad un brulicare di suoni indistinti che fanno a gara per sovrapporsi l’un l’altro. Semafori, grattacieli, automobili impazzite, estenuanti panoramiche che ci mostrano l’andirivieni di un macrocosmo nel bel mezzo del suo parossismo giornaliero. New York, sette milioni e mezzo di abitanti, un rigurgito di traffico che mozza il fiato e preclude la concentrazione, un mondo trasfigurato nella surrealtà di prospettive che si ergono a dilatare la materia puramente inorganica riducendola a pura astrazione grafica, nell’ambito di un processo ottico di materializzazione spaziale.
E se in “acqua, vento e sabbia” la poetica di Naderi si era fossilizzata su un gradiente emozionale ad alta percentuale di ossessività, esponendoci fino alla nausea scene di lotta per la sopravvivenza, analogamente in “Marathon” le sue tematiche non si spostano neppure di un millimetro da un quadro prefissato che vede l’essere umano circondato, ma non domato, da un environment estremamente ostile.
Affermazione apparentemente azzardata, tale e tanta è la diversità che intercorre tra i due ambienti rappresentati, ma il deserto di sabbia martoriato dalla vorticosità del vento possiede in un certo senso svariate analogie con l’altro deserto di ferraglie & derivati straziato dai repulsivi rumori della nostra contemporaneità. Naderi volge lo sguardo in direzione della desertificazione dell’animo umano, della sua assuefazione coatta ad un caos disarticolato, privo di ogni forma organizzata di coerenza, della sua perniciosa dipendenza dai più svariati stimoli esterni, con elevato rischio di overdose da concitata contemporaneità.
La lotta per la sopravvivenza si trasforma in velato conflitto generazionale, lo scavo spasmodico per l’acqua in un autoreferenziale e spasmodico svuotamento di caselle bianche. Questione di punti di vista. L’essere pervenuti ad un tale livello di assuefazione dei meccanismi mediatici di una società dei consumi in rotta sul versante della paranoia fa si che anche il superamento di mezzo punto di un record personale, ahimé materno, assuma la connotazione di una vera e propria corsa alla riabilitazione dell’ego.
Naderi dimostra di conoscere alla perfezione il suo mestiere, producendo un calibrato dosaggio tra esasperazioni prospettiche e compressione dei piani, due opposti che vengono a coincidere di frequente, conferendo un inedito aspetto alla materia che continua a gravitare follemente attorno a sé stessa e porgendo inoltre un sicuro refrigerio allo spettatore con i suoi silenti ralenti che mostrano il popolo metropolitano in direzione sparsa. Ed il suo bianconero totalmente privo di mezzitoni, equiparato a quello dei cruciverba, giova a far risaltare al massimo i contrasti tra gli assorti silenzi di Gretchen, totalmente avulsi dalla follia collettiva e gli avvolgenti rumori di contorno.
Ma sono soltanto brevi attimi di pausa nella frenesia dell’assieme. E tutto sommato l’uomo (anzi la donna), talmente assuefatto all’orgia di rumori da non poterne più farne a meno, pena la condanna ad un irreversibile disseccamento della propria vena creativa, diventa il vero centro d’attrazione di un universo che ha perduto ogni sua connotazione reale, di un’anabolizzata massa centrifuga che trae la sua unica ragione d’essere dalla reiterazione di un movimento sempre più fine a sé stesso. Ma a volte è sufficiente il breve volo di un piccione per restituire un briciolo d’umanità all’assieme ed attenuare la spersonalizzazione dell’ambiente. Ed anche le silenti inquadrature finali di una città suggestivamente immersa in una soffice coltre di neve contribuiscono a restituire le loro identità all’assieme.

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