Regia di Roberto Andò vedi scheda film
Ambiguo. Commerciale. Non dice nulla di nuovo né interessante su un aspetto cruciale della nostra storia.
Il film di Andò si può tranquillamente evitare di vedere, anche se – dalla sua – vanta alcuni pregi. Innanzitutto, ogni tanto si ride bene (come quando uno dei due protagonisti scopre che la vecchia fidanzata è ormai moglie e madre). Raramente, si vede qualcosa di intelligente serio: come con il lutto pianto dalle donne del sud, un’usanza tanto impressionante e in parte assurda, quanto reale.
Ma la patina è modesta, televisiva. Non solo per la parte, così popolareggiante, nel monastero.
La sceneggiatura, troppo semplice, sembra studiata per fare presa sul pubblico più sempliciotto. Del resto la scelta di Ficarra e Picone sembra in linea con ciò: comunque far ridere il popolino, anziché il pubblico meno sprovveduto, fa più cassetta, come è noto. Non ci sarà la pretesa che poteva avere un Monicelli quando nel ’59 dirigeva Sordi e Gassman nei panni similari di due italiani qualunque, inghiottiti anch’essi dalla “grande storia” de “la Grande guerra”: individualisti e falsi; codardi ma condannati dalla propria coscienza ad avere uno scatto d’orgoglio e di dignità che li porta sopra la loro abituale meschinità, oltre che portarli alla morte. Ma, giacché il tono indicato è quello, ben impegnativo, almeno sarebbe stato utile, con umiltà, tentare di avvicinarvisi.
Le scene di massa, poi, si sarebbero dovute gestire in modo epico; ma la difficoltà di reperire mezzi economici adeguati ha forse fatto il paio con la difficoltà di reperire mezzi estetici adeguati.
La riflessione storica, per quanto condivisibile, è trita e ritrita. Che il Sud Italia abbia conosciuto molti più svantaggi che vantaggi dall’unificazione; è storicamente noto – per quanto occultato da una certa, spesso interessata, retorica. Che i democratici nel Risorgimento siano stati più che altro ingannati – quando la loro opera è stata coronata dal successo – e strumentalizzati per creare uno stato italiano che poi fu molto più contrario, che vicino, a quello che loro speravano e per cui hanno combattuto, e che molti di loro siano rimasti disabili o sono morti per “un abbaglio”: è altrettanto vero. Ma di tale lettura storica qui c’è un po’ poco. Che almeno è affidato a un Servillo eccellente come al solito: lui solo tiene in piedi la baracca della recitazione, assieme a un Ragno che però appare in ben poche battute, e per giunta di un Garibaldi molto stereotipato (non per sua colpa), oltre che nascosto.
L’equazione italiano=disonesto è roba da ‘900. Non che fosse scorretta; non che dopo ci sia stata un’evoluzione morale nel popolo italiano così ragguardevole: ma il refrain dell’individualista falso e baro purtroppo infesta anche un finale da cui ci sarebbe aspettato ben altro, oltre alla celebrazione, appunto, del successo storico di tale individualismo delinquenziale e spregevole.
Alla fine tutto è andato bene; si sorride. I protagonisti hanno avuto lo scatto di eroismo: guarda caso, il lieto fine li salva pure. Ma il finale si prestava ad essere drammatico, data la piccineria morale dei due. E invece, ancora una volta, il bel gesto finale, che non riscatta la loro grettezza complessiva, dovrebbe bastare ad assolverli. Ma non ci riesce – anche alla luce del finale, gestito in modo contraddittorio.
La rivisitazione - cui il film di Andò sembra voler partecipare - dei tanti drammi e squallori della storia italiana degli ultimi secoli richiedeva ben altro, per meritare una sufficienza cui comunque la sua pellicola non è andata però tanto lontana, per certi versi. Quanto meno, il dolore della guerra, la morte e la disabilità cui essa ha condotto alcuni per i più nobili fini di interesse comune, qui appaiono.
Per dire del peggioramento culturale dei tempi: a fine secolo scorso bastavano delle serie TV per raggiungere, sugli stessi temi, un livello estetico e una significatività storica incomparabilmente superiori - basti pensare a "Le cinque giornate di Milano" del '70, o a "Il generale" di Magni dell'87.
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