Regia di Roberto Andò vedi scheda film
Che a monte della Sicilia di Roberto Andò, palermitano doc, ci sia la grande tradizione letteraria isolana che da Verga arriva a Sciascia passando per altri nomi illustri, non è un segreto. Lo dichiara lui stesso e dalla novella Il silenzio di Sciascia mutua quella parte del film che, forse, è la più coinvolgente ed è quella che al colonnello Vincenzo Giordano Orsini (Toni Servillo), incaricato di reclutare volontari, regalerà una commozione che non era più abituato a provare.
… quei segni di greve miseria lo colpivano. Non ha detto chiaro che non aveva mai visto quella faccia dolente e greve della sua terra. E più lo colpiva che in queste condizioni di vita non diverse da quelle della capra, dell’asino, la gente conservasse intatti ed alti i sentimenti umani: la pietà, la gentilezza, il coraggio.
Orsini ha origini aristocratiche ed è un patriota convertito alla causa rivoluzionaria. Ma è anche uno scettico, segue Garibaldi perché fra scetticismo e speranza continuerà ancora a scegliere la speranza, ma spesso le sue parole tradiscono il suo comportamento. Orsini è un profondo conoscitore del suo popolo e al tenentino veneto che gli chiede: Ma perché si parla tanto male dei siciliani? Sono così gentili! Aspetta qualche secondo a rispondere e poi dice: I siciliani hanno perso ogni speranza di poter cambiare il corso della storia. Non credono più in niente. Ogni volta che hanno tentato di cambiare qualcosa i loro tentativi sono finiti nel sangue.
E al tenentino che insiste: Perché?
Perché sono dominati dall’aristocrazia più ignorante e corrotta d’Europa.
Andò fa una scelta coraggiosa proponendo un film in costume su un pezzo di storia patria ormai relegato ai libri di scuola, dove uno sguardo frettoloso e annoiato appiattisce i personaggi, toglie prospettiva alle vicende, le relega nel corridoio dei passi perduti.
E invece, in una recente intervista (su Rai 3, Il cavallo e la torre di Marco Damilano) Andò ha detto chiaro che sta parlando di oggi, che quella storia (l’impresa dei Mille) non è roba vecchia, che dal passato c’è tanto da imparare per capire il presente.
E questo lo sapevamo, ovviamente, ma il cinema è uno specchio e la sensibilità di un regista in stato di grazia, un cast di bravi attori, sceneggiatura impeccabile, movimento masse complesso, ambientazione in una Sicilia che, oltre Palermo, ci fa scoprire luoghi fantastici e paesini fermi nel tempo, “una Sicilia inedita, dice Andò, assai diversa da quella che siamo abituati a vedere rappresentata. Una Sicilia verde, fatta di boschi, di fiumi, con luoghi impervi da raggiungere dove la troupe è arrivata solo grazie all’auto della forestale”, ecco, tutto questo riflette, come uno specchio, una realtà che non possiamo ignorare solo perché avvolta dalla polvere del tempo.
Quella Sicilia in cui si girava a cavallo e in carrozza, fatta di sfarzo e miseria, palazzi nobiliari e luride stamberghe, è la Sicilia di “patti scellerati che scontiamo ancora oggi”, (ancora parole del regista), la Sicilia dove all'aria vanno i cenci, scriveva Verga nella novella Libertà sul massacro di Bronte.
Quello che avvenne dopo l’impresa di Garibaldi, quello che si preparava perchè tutto cambi affinchè nulla cambi, lo sappiamo da Visconti che ce lo ha ricordato nel Gattopardo, e ripeterlo ancora è sempre buona cosa.
1860 e anni immediatamente successivi. Andò e Visconti si muovono nello stesso tempo, quando tutto era possibile e nulla cambiò.
Dallo sbarco a Marsala all’episodio di Sambuca, passano giorni pieni di entusiasmo, di canti, di scontri campali e tanti morti, ma l’entusiasmo reggeva, e resse ancor più quando, con strategia plateale, Garibaldi inviò Orsini con la sua colonna all’interno per una pericolosa missione che ai borbonici creasse un abbaglio, facendo credere che le camicie rosse fossero in ritirata. Il paesino di Sambuca aiutò eroicamente la colonna Orsini che ingannerà i borbonici.
Funzionò e Garibaldi entrò a Palermo.
Ficarra e Picone creano un diversivo comico che non guasta, non si può essere tutti eroi senza macchia e senza paura, ma il loro gesto eroico, casuale all’inizio, li assolve e crea il secondo abbaglio del film.
Il film lo dice fin dal titolo, l’abbaglio è il grosso equivoco, è vedere quello che non è, ingannarsi.
L’abbaglio è spesso la nostra visione delle cose, vedere quello che a tutti i costi vogliamo vedere, e non poteva che essere così per quei picciotti che videro in Garibaldi la loro unica speranza.
Ma di un abbaglio è vittima anche Orsini, nonostante il suo distacco dalle cose. Alla fine aveva creduto in quei due popolani (Ficarra e Picone), ma gli anni passano, in venti anni tutto cambia, o meglio, tutto resta com’era.
Garibaldi è sullo sfondo, figura epica come merita di essere ricordato ma privo dell’alone retorico che sempre lo circonda. Non fu un abbaglio, Garibaldi, ma tener testa agli abili manipolatori per cui l’Italia può andar fiera anche oggi, beh, neanche lui.
Le sue idee rivoluzionarie diedero a quelle povere genti qualcosa che non avevano mai avuto, fiducia, speranza, ma la disillusione fu aspra e delle conseguenze Vincenzo Orsini è un acuto premonitore.
E’ l’ultima parola del film, “un abbaglio”, ed è affidata a lui, Orsini, in primissimo piano.
www.paoladigiuseppe.it
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