Regia di Patricia Cardoso vedi scheda film
Tra superstizione all’acqua di rose e misticismo di facciata prende vita questo piccolo film vincitore del premio del pubblico al Sundance Film Festival 2002, appartenente alla categoria “gli introvabili”, quelli cioè da ricercare con una lente d’ingrandimento nel corso del nostro vagare incessante tra oscure selve blockbusterizzate. E se in effetti sia il titolo che la relativa locandina invitano a ben più stuzzicanti esperienze visive, ulteriori valutazioni di merito ci esortano in ogni caso alla riconsiderazione del proverbio “chi si contenta gode”, preso atto oltretutto dell’incidenza di una pornotax nuova di zecca che, si spera vivamente, mandi finalmente in malora le orde di pellicole sewer style che si ostinano tuttora a fregiarsi dell’appellativo di “opera cinematografica”.
Nasce dunque come velato scontro generazionale quest’accattivante operina che alla resa dei conti finisce con l’annoverare ben più pregi che difetti al suo attivo, fermo restando che si tratta pur sempre dell’ennesima commedia avente per soggetto i problemi degli immigrati di seconda generazione, ispanici questa volta, e lo si avverte chiaramente in una più evidente apertura nei confronti delle svariate problematiche giovanili, specie se rapportata ad opere come “Un bacio appassionato” ed “East is east”, in cui la voglia di cambiamento appare maggiormente vincolata da ben più ferrei paletti generazionali.
Ma il personaggio di Ana, la “dea ex machina” della situazione, una donna senza curve ma più vera del vero, cui presta il volto una paffutella America Ferrera tutta da baciare, nonostante la sua indiscussa mole tondeggiante non può granché definirsi “personaggio a tutto tondo”. In bilico tra arcaiche tradizioni familiari e rivendicazioni liberal-femministe post litteram, la scelta netta e decisa per la seconda ipotesi traspare talmente chiara ed evidente, al punto da non costituire neppure il motivo di interesse primario della vicenda.
Giova invece rilevare l’evidenziazione del contrasto stridente tra il trend modaiolo vigente che impone un tipo di femminilità imperante a base di strutture snelle e curvacee inguainate in taglie da quaranta in giù e l’invasiva formosità trionfante a base di smagliature cutaneee e di tessuti adiposi esibita da una cerchia di presenze femminili indotte da un residuo lampo d’orgoglio a farsi vanto della loro “diversità” corporea. Il tutto condito con una larvata denuncia sociale nei confronti della grande industria manifatturiera che fiorisce e prospera sullo sfruttamento della mano d’opera locale. Per la serie: “le donne vere hanno le curve..... ed abiti da seicento dollari cuciti dalle donne false per venticinque dollari.”
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