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Com'è umano lui

Regia di Luca Manfredi vedi scheda film

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La recensione su Com'è umano lui

di Souther78
9 stelle

Regia e attori in stato di grazia, in una rappresentazione senza dubbio idilliaca e apologetica, ma ciononostante frizzante, originale, sentita e accattivante. Un'opera che possiamo tranquillamente prendere a esempio di cinema che vorremmo vedere di più, con accenti e atmosfere di tempi (purtroppo) trascorsi. Da guardare e da consigliare a tutti.

 
Com'è umano lui! è una briosa nota colorata in un cinepanorama sempre più grigio, omologato e appiattito, in bilico tra quei pochi mostri sacri superstiti e i benemeriti sconosciuti o attoruncoli improvvisati che magari sono pur divenuti famosi, in un'epoca in cui la mediocrità è già nota di merito rispetto alla scarsità.
 
Con l'introduzione musicale effervescente siamo già avvisati: non si tratterà di un dramma all'italiana, nè di un avvilente intreccio di destini avversi. Manfredi adotta uno stile scanzonato, con il quale scandirà tutti i personaggi, svelandone il lato comico, e a tratti quasi grottesco, ma senza mai lasciarsi andare a facili esagerazioni. Fin da subito percepiamo l'amore per il protagonista, e, in generale, per i personaggi che gli orbitano attorno. Mettiamo per un attimo da parte la storia autentica e lasciamoci trasportare sulle note spensierate dell'Italia (Genova) degli anni '50: la voglia di fare, di rinnovare, di innovare, di inventare e di trovare un senso inizia a farsi strada, e il nostro se ne fa portavoce. Le scanzonate imprese di Paolo e dei suoi compagni di avventure ci riportano a un tempo di vita conviviale, di sentimenti forti, di passioni d'amore, di canzoni sentite, di profonda umanità. Umano. Come lui. Un uomo, con sogni forti, speranze, desideri, ma anche ansie, paure, timori, insicurezze. Una novella didascalica come raramente ne troviamo nel panorama patrio: assai più inclini a sognare, e a perseguire i sogni, sono semmai tradizionalmente i cineasti a stelle e strisce. E, allora, benvenga una boccata d'aria fresca nella penisola che ha espresso artisti sopraffini della comicità e che ha fatto perfino della canzone intrisa di comicità un genere.
 
Enzo Paci non scimmiotta, non parodizza, non eccede: si ferma puntualmente e rigorosamente giusto un passo prima di arrivare lì, dove lo stesso Villaggio sembrava già un pelo oltre nella pantomima, e dove è decisamente troppo in là per qualsiasi emulo. Le movenze sembrano naturali e spontanee, anche fuori dalle "scene", il timbro vocale e l'imitazione dei personaggi è assolutamente credibile. Fabrizio de Andrè rivive in un sosia che, pure nella vocalità, sembra l'originale. Perfino il giovane Maurizio Costanzo è reso con una affinità encomiabile. 
 
Nei panni del ragionier Bianchi (alias Filini), troviamo Gianni Fantoni, che probabilmente avrebbe ambito al ruolo da protagonista: con tutto l'affetto nei suoi confronti, però, possiamo serenamente affermare che il suo personaggio teatrale di Fantozzi non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello di Paci, finendo per risultare troppo caricaturale e stereotipato. Ci piace, però, vederlo almeno moralmente premiato con la presenza in quest'opera, che lo vede perfettamente a suo agio.
 
Diverte, emoziona, intrattiene, a tratti commuove. 5 stelle sono dovute.
 
Se, poi, vogliamo affrontare l'opera dal punto di vista della storicità, emergono inevitabili falle: a parte la cronologia degli eventi (alcuni si sovrappongono, altri, come le esibizioni in nave, scompaiono, altri, come la pubblicazione dei libri, originariamente storie a episodi su rivista, vengono compressi), ciò che più fa storcere il naso è senz'altro la versione buonista e assolutoria del personaggio e della persona. Paolo Villaggio esce da qui come un sentimentale padre di famiglia, fedele, puro di ideali, geniale e dirompente. La realtà, ahinoi, è quella di una persona con alti e bassi (e, quindi, umano!), che raccontava di aver tradito la moglie in ogni occasione possibile, e di aver subito altrettanto da lei, tendenzialmente cinico nella vita come sulle scene, che ebbe a criticare Alberto Sordi, poichè, a suo dire, avrebbe dovuto ritirarsi dalle scene ben prima di quanto ha fatto. E come ignorare che la comicità di Villaggio fosse tutto sommato demenziale e monotematica: al di là di Fantozzi, o della sua variante Fracchia, non ha saputo proporre altro. E', insomma, vissuto di rendita di quell'unica caratterizzazione azzeccata, che ha sfruttato in ogni forma e grado, e con infinite reiterazioni. I racconti, poi trasposti in libri, poi trasposti in film. I film venuti dopo i primi due, che rappresentano un rimescolamento (e a volte una vera e propria replica) dei precedenti, e in cui i personaggi si limitano a ripetere all'infinito la stessa gag in contesti differenti. Se volessimo trovare una falla nell'opera, probabilmente sarebbe proprio questa: l'immagine stereotipata e apologetica di un uomo che si è improvvisato cabarettista, e la cui vita non sembra certo il fulgido esempio di virtù che il film trasmette. Per questa ragione, il punteggio che ci sentiamo di assegnare si attesta su 4 stelle e mezzo, ma autori, regista e attori meritano un inchino, così come, pur con tutti i suoi difetti e i limiti attoriali e tematici, il nostro ragioniere ce lo portiamo tutti nel cuore, e chiunque sia nato tra gli anni '40 e gli '80 non può non sentirlo parte della propria cultura, quasi come un simbolo di italianità. Del resto, se l'aggettivo fantozziano è entrato nei dizionari, ci sarà pure un motivo.
 
Difficile dire se, come simboleggiato nel gran finale, siamo tutti Fantozzi. Certo è che, se non proprio tutti, almeno quelli di una certa età, hanno in sè un po' di lui, che è stato decisamente... umano!
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