Regia di Lee Tamahori vedi scheda film
Bond (Pierce Brosnan), tradito da un collega e fallita un’operazione in Nord Corea, dopo una lunga detenzione, viene ceduto agli inglesi attraverso uno scambio di prigionieri. Licenziato dai servizi segreti, si mette in solitario sulle tracce del traditore, con l’appoggio dell’americana Jinx (Helle Barry), imbattendosi nel misterioso Gustav Graves (Toby Stephens), magnate dell’industria aerospaziale, e nella sua assistente Miranda Frost (Rosamund Pike).
La morte può attendere, primo Bond del terzo millennio e ventesimo capitolo della serie cinematografica, celebra il cinquantenario del personaggio inventato da Ian Flaming nel 1952 e il quarantesimo anno dal primo film Licenza d’uccidere del 1962. Sarà anche il congedo definitvo per il buon Pierce Brosnan, a cui bisogna riconoscere il merito di aver restituito rinnovata linfa al personaggio con ben quattro pellicole in soli sette anni.
Lo neozelandese Lee Tamahori, esperto in thriller d’azione e dramma crudi confeziona però un baraccone che cerca grandiosità spettacolare con risultati decisamente pacchiani: se la trama non brilla affatto in originalità, il film soffre ulteriormente di scarsa qualità scenografica (davvero insolita per gli standard bondiani), abusando di effetti digitali davvero poveri. L’estetica delle sequenze d’azione (vedi l’inseguimento sul lago ghiacciato) sembra più consona, invece, a un roboante e patinato spot di automobili. Per il resto, vorrebbe fare il verso al fascino conneriano, la goffaggine di Moore e alle trovate fantapolitiche degli anni ’60 e ’70, dimenticandosi per strada la storia e i personaggi, i colpi di scena e lo stupore, in un canovaccio di battute e cliché ormai trito e ritrito per un bignami bondiano solamente auto-citazionistico: se la star Helle Barry (fresca di Oscar per Monster’s ball) non fa un granchè a parte entrare in scena in bikini alla Ursula Andress, K (John Cleese) dopo aver mostrato i vecchi gadget di Dalla Russia con amore (le scarpe con punta avvelenata retrattile), Goldfinger (la bombetta a lama di Oddjobb) Thunderball (il jet-pack) e Octopussy (l’acrostar e il finto coccodrillo), consegna un’Aston Martin invisibile super-equipaggiata di armi che manco la batmobile potrebbe sfoggiare. Strizzata d’occhio ai coevi blockbuster supereroici, con villain fumettistico (Toby Stephens) corazzato di armatura e arsenale apocalittico. Tra le Bond-girl, l’esordiente Rosamunde Pike (ancora una volta il franchise lancia fortunatissime carriere) è l’algidissima agente britannica che non riuscirà a cedere al fascino del bel James (rimosso dall’incarico di agente, come avveniva in Vendetta privata nel 1989). Anche stavolta Miss Moneypenny (Samantha Bond) resta a bocca asciutta, fantasticando solo con la realtà virtuale (in una divertente gag).
Il film evento, forte della rinnovata popolarità del personaggio e pompato dalla title-track di Madonna Die another day, si piazzerà al primo posto come miglior incasso globale di sempre della serie sbancando i quattrocento milioni di dollari nel mondo e superando Il mondo non basta (record comunque successivamente declassati che non tengono conto altresì delle correzioni inflazionistiche dei film precedenti, che vedrebbero ancora Thunderball e Goldfinger al top): l’aria però sa di stanco e la serie necessita di un momento di riflessione per un deciso restyling, che non tarderà ad arrivare.
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