Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
La quarta fatica di Tarantino non delude. Dopo i sorprendenti “Le iene” e ”Pulp fiction” e il solo apparentemente sotto tono “Jackie Brown”, il geniale regista americano si ripete, mettendo in piedi il suo film più rappresentativo. Se infatti nelle altre pellicole si puntava soltanto su alcuni aspetti peculiari della creatività tarantiniana, con “Kill Bill vol.I” lo spettatore ottiene un’ora e mezza della summa della sua creatività. I dialoghi e la struttura destrutturata di “Pulp fiction”, la crudezza splatter de “Le iene”, l’onirismo di “Dal tramonto all’alba”, la profondità dei sentimenti di “Jackie Brown”. Tutto questo, ma non solo è “Kill Bill vol. I”.
Tarantino chiama a raccolta il meglio dell’arte comunicativa anni ’60, ‘70 e ’80 per creare un fumettone che condensa un po’ di tutto: dallo spaghetti western, ai film di kung fu, dai manga allo splatter anni ’80 fino alle atmosfere horror di alcuni film anni ’70. Aggiungeteci pure una colonna sonora (firmata RZA) che commistiona sottofondi giapponesi con marcette sui generis, nonché una struttura narrativa volutamente arzigogolata, ed ecco a voi il background tarantiniano personificato in un film.
La trama si svela con cautela e riguarda la storia di una misteriosa donna, nome in codice Black Mamba/Uma Thurman che, sopravvissuta miracolosamente ad un agguato dei suoi ex colleghi di lavor(acci)o, è motivata oltremodo a farsi giustizia da sola contro la banda di Bill. Dopo 4 anni di coma, riesce in 6 mesi ad imparare il kung fu per andare a saldare il conto lasciato in sospeso in una chiesa di Pasadena quasi un lustro prima. Tarantino ci mostra l’antefatto attraverso un rompicapo di flashback, fino a mostrarci il singolar tenzone con 2 dei suoi nemici: una (apparentemente innocua) casalinga americana e la capobanda della Yakuza giapponese.
Particolarmente esaltante il background di quest’ultimo personaggio, interpretato da Lucy Liu, interamente raccontato attraverso un cartoon giapponese. Ma non è certo l’unico elemento di destabilizzazione che Tarantino inserisce nel film. Rispetto ad un film “normale”, l’orgoglio di Cesare Lombroso ci propina “beeep” ad arte alla Bunuel, sequenze in bianco e nero, citazioni, split screen depalmiani, resusciti artistici (la Thurman, appunto, che dopo “Pulp fiction” non s’è mai ripetuta agli stessi livelli, ma anche la bellissima Vivica A. Fox, da “Indipendence Day” o la giunonica Darryl Hannah, da Blade Runner).
Insomma uno spettacolo d’arte varia che è la summa organica dell’opera tarantiniana: un film da vedere, in attesa del secondo, criticabile per l’intrinseco “modus lucrandi”, capitolo.
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