Regia di Miguel Arteta vedi scheda film
Se c’è qualcosa di cui il cinema non ha più bisogno, è l’indipendentismo americano da Sundance, con la solita provincia, le solite casette e il solito malessere. Tutte cose che anche The Good Girl ci fa vedere. Come fosse il primo. In questa cittadina, la vita scorre monotona, le facce sono mogie e la solitudine impera. Come da copione. Holden (Gyllenhaal), un ragazzo chiuso e tormentato, si innamora follemente della commessa Justine (Aniston), che ci sta. Ma poi le cose precipitano. Peccato che il contesto sia così trito, perché Arteta, in equilibrio tra humour e tragedia, ha un occhio attento ai personaggi (anche se Holden è una figura davvero irritante nel suo compiaciuto isolamento da adolescente frustrato cui il mondo non concede nulla), come già aveva dimostrato nel suo ben più riuscito Chuck & Buck (inedito da noi). A colpire è Justine: una donna che, quasi inconsapevolmente manda alla malora tutti e tutto, compresa se stessa. Cattiva o ingenua fino all’ignoranza che sia, Justine è il nodo focale di un universo dove il dolore e il male, silenziosamente ma irrimediabilmente, sono come le pedine del domino. Molto sopravvalutato in patria: e col sospetto che lo sguardo del regista sia anche un po’ snob.
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