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The Ring

Regia di Gore Verbinski vedi scheda film

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La recensione su The Ring

di degoffro
4 stelle

Il remake americano, targato Dreamworks, di un presunto cult movie horror giapponese è piuttosto bollito. Del resto già l'originale, firmato da Hideo Nakata, non era nulla di travolgente né esaltante, benché molti sostengano, ancora con convinzione, il contrario, gridando al capolavoro. Lecito dunque pensare che il mediocre Gore Verbinski, post "The mexican", l'orrido action che riuniva sullo schermo, per la prima volta e maldestramente, la coppia di divi Brad Pitt e Julia Roberts e pre "La maledizione della prima luna" (film il cui successo, purtroppo, garantirà al regista di lavorare vita, natural durante, anche se fino ad ora il suo titolo migliore resta l'esordio con la favola nera "Un topolino sotto sfratto" con un fenomenale Christopher Walken) non fosse in grado di rivitalizzare più di tanto una storia già di per sè assai rimasticata e convenzionale. Ed infatti il buon Gore dimostra di avere ben poca dimestichezza con l'horror, nonostante il nome: il suo "The ring" è del tutto insignificante, risaputo e piatto. Un compitino corretto, accademico, formalmente elegante, professionalmente ineccepibile per carità: e ci credo visto che la fotografia, glaciale e umida, molto alla "sesto senso", è di Bojan Bazelli, le scenografie, accurate e funzionali, di Tom Duffield, i trucchi, notevoli, del grande Rick Baker, le musiche, ahimé deludenti e noiose, di Hans Zimmer, che ha persino rinunciato all'anno sabbatico che si era ripromesso dopo la nascita dei suoi due gemellini, perché catturato dalle immagini del video maledetto che a suo dire "sembrava il mio stesso mondo, l'espressionismo tedesco". Non annoia e non irrita (ed è un merito con i tempi che corrono), ma non spaventa nemmeno. Verbinski e il suo sceneggiatore Eheren Kruger (esperto di horror, fantasy e thriller, suoi i copioni, a dire il vero sempre un pò scolastici, di "Scream 3", "The Skeleton Key", "Impostor", "Trappola criminale" ma anche dell'ottimo "Arlington Road") copiano a man bassa e senza vergogna tutto quello che possono copiare dall'originale, a partire dall'incipit che in questo film sembra ancora di più un calco di "Scream", adeguandolo al mortale ed imperante gusto omogeneizzato e colonizzante a stelle e strisce. Nessun tocco inventivo o nuovo, ma tanta inutile e vuota ripetizione. Non dà un grande contributo anche la revisione finale, in fase di sceneggiatura, di Scott Frank, non accreditato, e autore, tra l'altro, degli script di "Get Shorty", "Out of Sight", "Malice", "Minority Report" e "The interpreter". Poche le varianti rispetto all'originale, e del tutto inessenziali ai fini del racconto: la vicenda dei cavalli, chiave per capire il mistero del film maledetto è superflua e inconsistente, semplice espediente per inserire la curiosa sequenza del cavallo imbizzarrito che corre all'impazzata sul battello e precipita violentemente nell'oceano. C'è da chiedersi poi, in questa sequenza, come mai il personaggio della Watts, dopo avere constatato che l'animale, alla sua presenza, inizia ad agitarsi, non lo lasci in pace, allontanandosi. Altre aggiunte gratuite: il battibecco sentimentale tra i due protagonisti, ex amanti, dopo che Rachel conosce nell'ufficio di Noah la sua assistente, nonché nuova compagna (l'incontro tra i tre c'era anche nell'originale, ma tutto veniva risolto in modo molto più intelligente e sfumato e l'unica discussione tra i due protagonisti, ex coniugi, avveniva sull'isola dove stavano cercando di venire a capo del mistero, in relazione all'opportunità o meno di avere avuto il figlio). Il dialogo tra Noah e Aidan in macchina, con l'uomo che riconosce pateticamente la sua inettitudine e scarsissima propensione a ricoprire il ruolo di padre ed il piccolo che continua, indifferente e disinteressato a quelle parole, a disegnare. Il confronto al manicomio tra Rachel e l'amica di Katie, Becca, ormai completamente impazzita e delirante, dopo avere visto il volto terrorizzato di Katie. L'inserto onirico cha anticipa la scoperta, da parte di Rachel, che anche il figlio ha visto il film maledetto (nell'originale ci si limita a mostrare Reiko profondamente agitata nel sonno, svegliata da misteriose voci provenienti da un'altra stanza dove il figlio sta vedendo la vhs, in una sequenza ben più sconvolgente e coinvolgente, quasi disperata nella sua ineluttabilità). Ma è soprattutto a livello visivo che il film risulta piuttosto carente ed insolitamente fiacco. Un horror, in teoria, dovrebbe giocare molto sulle immagini per impressionare, specialmente se si tratta di un remake letterale, quasi fotocopiato, in cui, a livello narrativo, si riducono al minimo le sorprese, i colpi di scena, le sequenze shock, peraltro copiate anche queste pari pari dal film di Nakata, vedi per esempio gli improvvisi fermi immagine sui volti terrorizzati delle vittime di Samara. Verbinski e Kruger purtroppo confermano di non avere uno stile, un tocco, uno sguardo, una personalità particolari o incisivi, non riuscendo a distinguersi dalla massa anonima di facili mestieranti che popolano ormai da tempo Hollywood. Il loro "The ring" così inevitabilmente si muove su un binario morto: quello della stanca routine, della più ovvia prevedibilità, dello sterile citazionismo. Quando in un film che non vuole essere una parodia alla "Scary movie" ci si perde a cercare i diversi omaggi/scopiazzamenti da altri titoli di genere (horror, thriller, fantascienza, ce n'è per tutti i gusti), spiattellati in modo sin troppo esibito, rozzo ed elementare, secondo una moda che è segno evidente di una mancanza di idee ormai cronica, significa che non c'è nulla di nuovo all'orizzonte. Qui c'è l'imbarazzo della scelta: da "Shining" a "Videodrome" (a proposito di Cronenberg c'è persino una mosca che sembra intrappolata nello schermo), da "Il sesto senso" a "Poltergeist", fino a "Profondo rosso". La scena dello specchio per esempio ricorda molto la cornice del quadro in cui si vede Clara Calamai nel finale del thriller argentiano e poi quel disegno sulla parete, rappresentante un acero rosso, posizionato su una collina spoglia, pronto a farsi inondare di luce ad ogni tramonto - indubbiamente una bella immagine, anche se fin troppo ricorrente nel corso della visione a scandire il tempo che separa i protagonisti dalla loro fine - disegno che fa capire ai due protagonisti dove trovare il corpo di Samara e che a sua volta richiama un'altra celebre situazione del capolavoro di Dario. C'è persino una inutile sequenza che riprende "La finestra sul cortile" con tanto di signore con gamba ingessata sulla sedia a rotelle (il cinema di Hitchcock è stato il vero punto di riferimento e modello per Verbinski, che si è rifatto oltre che al film con Grace Kelly e James Stewart, anche a "Psycho" - il finale quando Rachel gira la sedia su cui si trova Noah - e "Complotto di famiglia"). Ed è curioso che lo stesso Hitch nel 1927 avesse girato un film muto intitolato appunto "The ring", "Vinci per me" in italiano, incentrato su un pugile. Un collage fine a se stesso in definitiva. E anche l'idea che il male viene dalla televisione, mezzo di comunicazione di massa che genera mostri e diventa trasmettitore di paure ed angosce misteriose, insieme alle nuove tecnologie (cellulari, internet, videocamere, telefoni) ormai è aria fritta. Quanto alla recitazione, la bella Naomi Watts, che ha ottenuto il ruolo dopo i rifiuti di Jennifer Connelly, poi protagonista di "Dark water" altro remake da Nakata, e Gwyneth Paltrow, e battendo la concorrenza di Kate Backinsale, corre, urla, scalpita, si agita, trema, piange, freme ma era molto più enigmatica e credibile nell'inquietante incubo "Mulholland Drive" di David Linch. Inoltre la sua progressiva redenzione attraverso la sofferenza (da giornalista arrivista a madre attenta e premurosa) lascia perplessi ed è quanto meno fasulla e scontata. Martin Henderson è un clone del giovane Matthew Modine, ma con meno personalità e carisma, il piccolo David Dorfman è il solito bambino pallido e trascurato dall'aria indemoniata (specie quando una goccia di sangue scende d'improvviso dal naso) che si diletta in macabri disegni (novità rispetto all'originale, ma non proprio idea geniale). Brian Cox invece fa il pari allo zio giapponese di Sadako nel film di Nakata: qui è il padre di Samara, un uomo burbero e infelice che gestisce un maneggio senza più cavalli e decide di farla finita suicidandosi nella vasca da bagno con il...televisore (episodio inesistente nell'originale e involontariamente comico). Tutti alle prese con personaggi stereotipati ed addomesticati. Ridicolo come i due protagonisti scoprono il pozzo alla locanda, ancora più grottesco come Rachel cade nel pozzo. Il soprannaturale prende il sopravvento e tutto sprofonda nella banalità più becera. Incomprensibile, per chi non ha visto l'originale, il finale. Rachel si interroga su quale sia stato il motivo della sua "assoluzione", e capisce che è stato per via della copia, ma più che altro si è salvata per averla mostrata ad un'altra persona, Noah, mentre qui si fa riferimento solo alla copia. Nell'originale tutto era molto più chiaro: Reiko prende VHS e videoregistratore e, portandoli con sé, va a prendere Yoichi dal nonno, dove l'aveva lasciato. Il film finisce con la donna che prosegue guidando, con il videoregistratore sul sedile a fianco, mentre una voce fuori campo di due ragazze alternate (magari in un lontano futuro) racconta la "leggenda metropolitana", secondo la quale per non morire devi far vedere ad un'altra persona il contenuto del video, in modo che muoia al posto tuo, perché comunque il ciclo di morte non avrebbe mai fine. Resta chiaro che gli strumenti che porta con se Reiko serviranno a Yoichi per far visionare al povero nonno la maledizione di Sadako e quindi salvarsi. Effetti speciali più accurati e sofisticati che nell'originale (specialmente nella sequenza del pozzo, dove il corpo di Samara tra le braccia di Rachel si trasforma in uno scheletro), ma non è una novità, dato il grosso budget del film e non è necessariamente un pregio. Il video di Samara è meno oscuro rispetto a quello di Sadako e strettamente funzionale alla vicenda principale (ogni elemento trova una sua giustificazione, secondo un'ottica di linearità e spiegazione tipicamente occidentale, in una rassegna quasi surrealista tra sedie volanti, corpi di cavalli morti sulla spiaggia, fari, suicidi, scale a pioli, alberi in fiamme, donne allo specchio). Saggia poi l'idea di evitare il ricorso ad improvvisi poteri speciali della protagonista (come invece accadeva in modo piuttosto rozzo ed infantile nell'opera di Nakata). Qui gran parte del mistero viene risolto attraverso un filmato di Samara nell'ospedale psichiatrico (parentesi assente nell'originale), anche se poi non si capisce bene come Rachel, nel pozzo, possa scoprire il destino di Samara, uccisa dalla madre in profonda crisi depressiva. La famosa scena del televisore (il vero effetto shock dell'originale) qui risulta meccanica, accelerata e poco funzionale, rovinata per di più malamente da un montaggio alternato (la macchina di Rachel che corre all'appartamento di Noah per salvarlo) che attenua e di molto la tensione: l'artigianato e la semplicità giapponese valgono decisamente di più. Simpatica invece l'idea dei disturbi video sulla sigla della Dreamworks. Il popolo dell'horror esulta dopo questa visione, ma in realtà "The ring" che secondo il suo autore costituisce "un accettabile compromesso tra pulp e avanguardia" conferma che il genere è alla canna del gas e l'odore di muffa si fa sempre più insostenibile. Tanto clamore ma siamo alla consueta minestra riscaldata. Straordinario successo di pubblico (130 milioni di dollari negli States, quasi 10 milioni di Euro in Italia), con tanto di sequel diretto dallo stesso Nakata. Curiosità: l'acero rosso che compare nel film è una pianta giapponese la cui frutta è conosciuta come "Samara". C'è da aggiungere che sia nella versione giapponese che in quella americana il nome della ragazza fantasma è collegato ad una storia relativa alla morte. In particolare Samara si riferisce ad un racconto del 1933 di W. Somerset Maugham intitolato "Appuntamento a Samarra" incentrato su un uomo che viene a contatto con la Morte in un mercato di Baghdad e fugge nella città di Samarra. Quando Noah e Rachel giungono alla locanda, alla conclusione del film, si vede sotto l'insegna "Shelter Mountain Inn" un cartello che indica “Chiuso fino a nuovo avviso". In una sequenza tagliata, visibile nel dvd, si scopre che il responsabile della locanda è morto per avere guardato il nastro (Noah lo trova su una canoa abbandonata al lago). Probabilmente quello è il motivo per cui la locanda è chiusa. Tagliate al montaggio anche alcune sequenze con protagonista il premio Oscar Chris Cooper, nei panni di un serial killer di bambini. Una fotografia dell'attore può comunque essere vista alla fine del film, nella sequenza girata nella stanza di Noah: è sul giornale da cui Noah sposta la sua tazza di caffè. Tra le altre sequenze tagliate, ma visibili su dvd, quella in cui Noah giunge a casa di Rachel dove trova il piccolo Aidan con una baby sitter, intenti a guardare la tv. Quando Noah domanda se la video cassetta "fatta in casa" si trova nella camera da letto, la baby sitter scoppia a ridere. L'omicidio di Samara nella versione iniziale del film era molto più lungo e brutale. Il film inizialmente è stato promosso con il titolo "Ring", analogamente a "Ringu" l'originale giapponese. Solo poco prima dell'uscita il titolo definitivo è diventato "The ring". La videocassetta con la scritta "copy" è il videotape dal film originale giapponese. "Il faro dell'isola di Moesko" di cui si parla nel film è un nome fittizio per un faro che esiste realmente ed è situato a Newport, in Oregon. Costruito nel 1873, è chiamato "Yaquina Head Lighthouse" ed è ancora un valido ed attivo aiuto per i naviganti. Nel dvd, che ha venduto oltre due milioni di copie nelle prime 24 ore in cui è stato messo in commercio, si può vedere anche un corto "Rings" diretto da Jonathan Liebesman, incentrato sulla storia di un ragazzo Jake che, dopo avere visto la videocassetta maledetta, non riesce a trovare un'altra persona che, a sua volta, guardi la copia del film secondo un ciclo infinito, per potersi salvare, dal momento che tutti quelli a cui chiede e che avrebbero dovuto proseguire la catena dopo di lui, si rifiutano. Decisamente molto più mozzafiato del film, perché capace di trasmettere perfettamente l'ansia del countdown e le possibilità sempre più ridotte per Jake di fuggire alla maledizione, mano a mano che si avvicina il termine ultimo. Forse solo Emily, compagna di scuola, di lui innamorata, ma sempre ignorata, potrà essere la sua ancora di salvezza. 16 minuti tesi e vibranti che da soli valgono "The ring".
Voto: 5

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