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8 Mile

Regia di Curtis Hanson vedi scheda film

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La recensione su 8 Mile

di 79DetectiveNoir
6 stelle

 

Ecco, innanzitutto. Non so se, domenica scorsa, assistette alla già comeback performance di Eminem della sua epocale, celeberrima canzone Lose Yourself sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles durante la notte degli Oscar. Una canzone, sì, passata alla storia, vincitrice per l’appunto della pregiosa, suddetta statuetta alla cerimonia degli Academy Awards del 2003.

Facente parte della splendida colonna sonora della pellicola 8 Mile, firmata dalla regia del compianto Curtis Hanson (L.A. Confidential, Wonder Boys).

8 Mile è un biopic romanzato, sinceramente un po’ ruffiano e auto-celebrativo della vera storia del re dell’hip hop, ovviamente Eminem stesso E chi, sennò? Per l’occasione interprete, infatti, e protagonista assoluto di questo film scritto da Scott Silver. Un nome e cognome che, per caso, vi dicono qualcosa?

Ma certo. È lo sceneggiatore, assieme a Todd Phillips, di Joker con Joaquin Phoenix. Oltre che, naturalmente, l’autore di script altrettanto pregevoli come, per esempio, The Fighter di David O. Russell.

Bene, in attesa del nuovo lavoro come writer di Silver (mi riferisco all’annunciata, nuova biografia cinematografica che sarà diretta nientepopodimeno proprio da Todd Phillips, ovvero una pellicola dedicata alla rocambolesca, avventurosa e pericolosa vita dell’ex wrestler Hulk Hogan), Silver, a quanto pare, da circa un ventennio a questa parte, malgrado distilli le sue sceneggiature col contagocce, si sta specializzando, sempre più raffinatamente e in maniera sottilmente tagliente,  in potenti storie di esistenze marginali in cerca di riscatto sociale. Storie complicate di rinascite e forti ribellioni furenti, rabbiose e forse giuste nei loro gridati, commoventi munchiani urli libertari, ferocemente nichilistici e al contempo assai romantici, scagliati apertamente contro un mondo violentemente discriminatorio, razzista e classista che, per gli svantaggiati e i meno abbienti, per gli emarginati e per i tipi difficili, rappresenta ancora a tutt’oggi un difficilmente scalfibile muro di gomma impenetrabile e invincibile.

Questa, in breve, la trama di 8 Mile:

siamo nella Detroit (vera città natia di Eminem) del ‘95.

Jimmy 'B-Rabbit' Smith (Eminem) è uno scalcagnato, sbandato e forse anche un po’ sballato ragazzino cosiddetto sbagliato. Che passa le sue tristi, angoscianti giornate, emozionalmente claustrofobiche e asfittiche, dividendosi fra il suo modesto lavoretto di carrozziere, i gravi problemi famigliari con la madre alcolizzata cronica, Stephanie Smith (Kim Basinger), e la piccola sorella.

Bighellonando, in cerca di gloria nelle sue notti selvagge e intrepide, irose e allo stesso tempo malinconiche, fra la compagnia di amici più sfortunati di lui e le sue coraggiose sfide in un locale di rapper agguerriti e metaforicamente armati sino ai denti al fine di diventare dei leader, non solo musicali, del quartiere. Per meglio dire di questa zona di confino, limitrofa a 8 Mile. Sorta di ghetto ove risiedono i bianchi considerati immondizia.

Dopo tante ferite esistenziali, tanti patiti dolori, vigliaccherie, ritrosie e tantissime delusioni, B-Rabbit sarà pronto a vincere, a colpi di filastrocche canore irresistibili e velocissime, il suo rivale per antonomasia, lo sbruffone, bastardissimo Papa Doc (Anthony Mackie).

 

Ebbene, Curtis Hanson, prima di 8 Mile e dopo una buona ma anonima carriera di regista considerato solamente un buon mestierante, sfoderò due film niente male. Anzi, di ottima qualità. Vale a dire i già sopra menzionati L.A. Confidential (ça va sans dire, adattamento del famosissimo romanzo di James Ellroy) e Wonder Boys, incantevole, dolce racconto di formazione, di growing up adolescenziale con un grande, istrionico, strepitoso Michael Douglas.

 

8 Mile è una sorta di Rocky sui generis. La vicenda di un underdog che, con la forza di volontà, con abnegazione inarrendevole, non cede dirimpetto agli ostacoli della vita, soprattutto non crolla dinanzi alla fragilità del suo carattere ipersensibile, della sua personalità innatamente troppo timida, quindi apparentemente non adatta alla durezza dell’esistenza impervia con le sue pressanti competitività mortificanti l’animo dei meno, all’apparenza, forti e gagliardi. Potremmo dire, non va al tappeto di fronte a un mondo, in tal caso di un metropolitano, losco, stronzo sottobosco, poco benevolente e magnanimo nei confronti di chi sembra, a prima vista, meno figo e cazzuto.

Morando Morandini, nel suo Dizionario dei Film, scrisse infatti le testuali parole:

Un po’ affettato nel suo miserabilismo, il film ha coesione, intensità, ritmo. Anche nelle rap battles – di cui i sottotitoli rendono in piccola parte l’adrenalinica aggressività – lo schema è quello del cinema pugilistico.

Fotografia di Rodrigo Prieto (The Irishman).

 

di Stefano Falotico

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