Regia di Mohammad Rasoulof vedi scheda film
Il seme del fico sacro (2024): Mahsa Rostami, Soheila Golestani
Tempo fa, parlando della forza distruttrice del fuoco, descrissi l'affascinante (e brutale) processo di rivitalizzazione delle foreste di sequoia. L'occasione per parlarne scaturì dalle immagini de "Il cielo brucia" di Christian Petzold. Il regista tedesco utilizzò, in quell'occasione, l'espediente di un incendio boschivo per raccontare la rinascita emotiva di un giovane uomo, dalle ceneri del fuoco e del dolore. Un simbolismo che mi aveva colpito e mi rammentò la necessità della sequoia di morire nel fuoco per rinascere alla vita e perpetrare la specie.
Non meno affascinante è lo stratagemma evolutivo adottato del "ficus religiosa", albero citato dal regista Mohammad Rasoulof nel titolo del suo ultimo film, da pochi giorni nelle sale italiane. Il seme del ficus, evacuato dall'uccello che ne ha mangiato il frutto, cade sul ramo di un albero qualsiasi ed inizia a germogliare. Le radici non necessitano di terra per crescere e presto scendono fino a conficcarsi nel suolo. A quel punto l'apparato radicale è abbastanza saldo da avvilupparsi attorno al fusto dell'albero ospite causandone il soffocamento. Il fico sacro perpetua la propria specie ad evidente scapito degli altri. Rasoulof rimase affascinato, a suo dire, da questa tecnica evolutiva osservata durante il soggiorno in un'isola del Golfo Persico. Non è un caso che il regista iraniano abbia conservato dentro di sé l'immagine di quel seme, apparentemente innocuo, che lentamente causa la morte dell'albero su cui è casualmente precipitato.
Il significato simbolico del titolo è decisamente stratificato. Non sfugga, innanzitutto, quello personale. Il regista, dopo anni di tribolazioni e periodi di carcerazione, si è dato alla fuga lo scorso aprile per evitare i risvolti di una sentenza che lo avrebbe privato delle libertà individuali per i successivi otto anni. Una sentenza che lo avrebbe ridotto alla stregua dell'albero rimasto senza luce e nutrimento. Le accuse mosse a suo carico erano dettate dall'aver cospirato contro il paese tramite contenuti cinematografici avversi alla morale islamica. Motivo per cui a Rasoulof è stato comminato, a più riprese, il divieto di girare e di lasciare il paese.
Ma non c'è solo un significato personale tra le righe del titolo. Il seme rivoluzionario gettato con la rivolta del 1979, e cresciuto a dismisura per quasi cinquant'anni, si è trasformato in un regime teocratico che indebolisce il singolo quanto l'intera comunità. La propaganda, frutto di quel seme, s'è insinuata nel contesto sociale strangolando la società civile con la paura, la chiusura e con falsi nemici da combattere. Infine ha sviluppato in tutte le classi sociali un facile istinto di delazione dentro cui crogiolarsi, nell'illusione di una meritata protezione da parte del potere civile e religioso. La propaganda come il seme ha pian piano soffocato la capacità delle persone di essere in disaccordo o di perorare un pensiero diverso da quello formalizzato dalle istituzioni.
A questo punto dobbiamo entrare nel bel mezzo della storia raccontata dal film, quella di un'interno borghese in cui madre e figlie partecipano, passivamente, alla stagione più speranzosa del recente passato iraniano, una stagione consumata nel sangue dalla polizia morale, scopo della quale è la protezione del buon costume e la repressione di ogni devianza dalla legge islamica. Immerse nelle comodità del loro appartamento di Teheran le tre donne ascoltano i telegiornali ma a poco a poco entrano in contatto con la realtà grazie ai telefonini su cui girano i video cruenti della repressione. I disordini, che la madre bolla prontamente come l'opera di facinorosi, sono quelli scoppiati in seguito alla morte di Mahsa Amini e lambiscono la finestra della casa di Iman, neopromosso giudice istruttore, uomo devoto a Dio e alla giustizia, marito per bene e buon padre di famiglia.
La presenza di un'amica della figlia maggiore accende la miccia del disordine che da sociale diventa familiare. Le ragazze iniziano a porsi domande, la madre si chiude a riccio nelle proprie convinzioni mentre il padre, sempre più assente, muta il proprio atteggiamento di fronte alla giustizia amministrata per vent'anni secondo coscienza. Le giovani Sana e Razvan vorrebbero partecipare alla rivolta mentre la loro madre Najmeh ed il loro padre Iman soccombono al sistema. Iman in particolare capitola ben presto alle pressioni del meccanismo che l'ha fagocitato. La morsa stritolante dell'apparato statale assume ora una dimensione intima e familiare. Il padre si tramuta in poliziotto perché nel suo cuore il seme della discordia ha cominciato a germogliare. C'è dunque una terza lettura che traspare nella parte finale del film in cui l'uomo di casa acquisisce le forme di un abbraccio strangolatore dando alle proprie azioni lo scopo di una strenua difesa della propria posizione sociale, di fatto diventando ingranaggio nel complesso macchinario protettivo del regime. Nel mutato contesto familiare sono le donne a subire le conseguenze degli abusi della forza, come avviene, contemporaneamente, nelle strade.
"Il seme del fico sacro" è stato girato in clandestinità a Teheran e dintorni, a causa delle note vicende giudiziarie che hanno visto Rasoulof nelle mire del regime iraniano. Impossibilitato a girare per le strade della capitale, Rasoulof ha utilizzato i filmati circolati sui social network per documentare le proteste dei giovani e, soprattutto delle donne. Una scelta necessaria ma che, a mio avviso, documenta ancora meglio la situazione vissuta nella capitale. Pur essendo privato della possibilità di girare il proprio film in piena libertà e benché interessato principalmente agli aspetti civili del mezzo cinematografico, Rasoulof ci ha regalato alcune bellissime scene come la sequenza iniziale in cui Iman firma i documenti della propria promozione. La migliore, senza dubbio, è quella in cui Najmeh si occupa del marito lavandolo e dedicandogli tutte quelle cure parentali che mai vedremo ricambiate durante la narrazione. Mi rimane qualche perplessità sulla lunghezza del film, in particolar modo per quanto riguarda l'eccessivo minutaggio dedicato alla rincorsa alle fuggiasche tra i ruderi dell'antico villaggio. Un girare a vuoto che probabilmente allude all'impossibilità del regime di soffocare qualsiasi dissenso. Qui, tuttavia, Rasoulof sembra consegnarci un po' di speranza tra le rovine del regime che prima o poi è destinato a collassare sotto il peso delle proprie imposizioni.
Ho apprezzato il lavoro del dissidente regista iraniano, il primo, tra l'altro, che parla del caso Amini che io abbia visto. Il problema di questo film, semmai ce ne fosse uno, è che venga apprezzato per l'eroico contesto produttivo più che per la qualità intrinseca, un problema che ho riscontrato in alcuni film di Panahi premiati per la loro valenza sovversiva e per le difficoltà riscontrate durante la produzione ma forse non così significativi per l'arte.
Il processo, però, a cui la troupe rimasta in Iran sta subendo, per oltraggio alla morale islamica, induce a pensare che il giudizio critico possa essere in parte influenzato da questioni politiche.
Augurando piena giustizia a tutti coloro, che in attesa di sentenza sono rimasti a Teheran, non posso fare altro che consigliare questo bel film. Il capo scoperto di Soheila Golestani che sfida, infine il marito (le autorità religiose iraniane) è l'immagine a cui aggrapparsi nella speranza di un cambiamento della società civile iraniana.
Cinema Teatro Santo Spirito - Ferrara
Il seme del fico sacro (2024): Misagh Zare, Soheila Golestani
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