Regia di Zhang Yimou vedi scheda film
Eccesso di forma e carenza di “sostanza”: potrei sintetizzare così quel che mi resta nella memoria dalla visione di Hero. Si può in effetti rimanere incantati (ma a mio avviso non completamente “soddisfatti”) dalla indiscutibile bellezza di alcune soluzioni visive che riproducono esuberanti e magiche tavolozze pittoriche dalle stupefacenti “variazioni cromatiche”. Non tutto però – e non sempre – è allo stesso livello, perché alcuni momenti sfiorano il manierismo esasperato di un ineccepibile ma vuoto “formalismo” e lasciano chiaramente comprendere quanto labile sia la barriera che separa il “sublime” dal kitsch). Un esempio per tutti? La da più parti decantata “scena dei drappi verdi”, esteticamente opulenta e ridondante, ma intrisa di un decadentismo inutile e accentuato, che mi sentirei di definire zeffirelliano (e non è indubbiamente un complimento quello che intendo fare con questo accostamento, sicuramente azzardato, ma che a mio avviso rende bene l’idea, considerando la scarsa considerazione che nutro per la qualità dei risultati “artistici”, specialmente in campo cinematografico, del mio illustre conterraneo). Certamente gli “occhi” possono uscire appagati dalla sala ma il vuoto del contesto è disturbante (per lo meno questa è la mia discutibile opinione). Sarebbe insomma il caso di liquidare la questione con un lapidario "Quanto talento sprecato inutilmente!!" perché un film così leccato nelle immagini e arido nei contenuti è quanto di più lontano esista dalla mia concezione di cinema delle emozioni e del coinvolgimento, nonostante appunto lo sfarzo tutto epidermico che rimanda alla “fastosità” - anche quella tutta esteriorizzata - della sua Turandot fiorentina zeppa fino all’inverosimile di ciarpami, stendardi e lanternine e aggraziati movimenti “sincronizzati”. Una noia mortale insomma (forse esagero un poco ma è indubbio che è quella la sensazione che spesso ha avuto il sopravvento lasciandomi indifferente e “apatico”). Mi veniva forte il rimpianto semmai per il cinema di Kurosawa (non tanto per gli evidenti e banalizzati rimandi a Rashomon nella composizione della storia, quanto per il perdente confronto visivo per esempio con i meravigliosi e non inutili “formalismi” di Ran, quella sì una pellicola grondante “sangue” e “anima” in ogni sequenza!). Altri tempi e altre “modalità” si dirà, un “ingeneroso” richiamo alla memoria di un modo di intendere l’arte cinematografica probabilmente oggi non più proponibile… ma io sono spesso radicale e fortemente “impietoso” proprio nei confronti di coloro che “riterrei” all’altezza ma che poi all’atto pratico non osano più fino in fondo per ragioni che immagino motivate più che da “cadute dell’ingegno” (la mano si conferma adeguata e “volitiva, capace davvero di “grandi cose”) da compromessi di natura esclusivamente “alimentare”. E allora il rammarico si fa ancor più lacerante, e riguarda lo stesso Zhang Ymou poetico e stimolante delle origini, o quello disadorno e empatico ma fortemente ancorato alle realtà politico sociali di un mondo in trasformazione, della “favola buona” ma non “rassicurante” di Non uno di meno che vorrei poter in qualche modo “ritrovare” e riconoscere anche qui, ma purtroppo non ci riesco proprio. E’ chiedere troppo? Io credo di no, ma anche queste ovviamente sono considerazioni fortemente opinabi, direte voi...
Tanto di cappello alla regia. Un solo consiglio. Basta con gli orpelli formali. Possiamo dire: ma guarda quanto è bravo a impaginare le scene e che fantasia nel trovare soluzioni visive e cromatiche diverse per le varie sequenze! E dopo? No caro il mio regista, torna ai tuoi meravigliosi, coinvolgenti racconti che ci hanno fatto amare il tuo cinema e smettila con queste stronzate.
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