Regia di Spike Jonze vedi scheda film
In teoria, il cinema è morto da tempo. E da tempo lo stesso riflette su se stesso, autocibandosi in modo cannibalesco. Come se fosse consapevole di un’incapacità al racconto e, dopo lustri di omaggi, fosse stufo del citazionismo. È forse per questo che in una sola stagione abbiamo visto Lontando dal Paradiso (saggio sul melodramma e su una maniera classica e “antica” di costruire immagini e sogni), S1mOne (dolorosa riflessione sulla solitudine del e nel cinema contemporaneo) e ora vediamo questo Ladro di orchidee, geniale e confusa ricognizione sullo scrivere e, sull’inventare storie. Un film che sin dal titolo cerca di “adattarsi” al divenire, alla diffusa mediocrità che non sempre può essere contrastata dal talento. Perduta probabilmente già al momento del parto la propria innocenza («Voglio tornare bambina» piange Meryl Streep in sottofinale), il cinema ripensato da Charlie Kaufman (il fratello gemello dei credits è una sua invenzione, il suo doppio) e rimbalzato questa volta in echi minimalisti da Spike Jonze, galleggia nel placido clima californiano alla disperata ricerca di ripartenze da cui spiccare (di nuovo) il volo verso il sole hollywoodiano. Un gioco a spirale estremamente pericoloso, che non di rado va in tilt ma che indubbiamente, almeno per tre quarti, coinvolge e intriga, spiazza e (non) fa pensare.
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