Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Quando ho visto Solaris di Soderbergh, non l’ho trovato particolarmente disdicevole. Certo, un po’ statico (come il suo protagonista George Clooney, al quale non si addice troppo un ruolo silenzioso, pensieroso e tormentato), un po’ lento (nonostante i contenuti 99 minuti), un po’ datato nell’assunto, fermo a quegli anni ’60 che videro la nascita del libro di Stanislaw Lem e del film omonimo di Andrej Tarkovskij, e nei quali la fantascienza si spostava dal viaggio spaziale, temporale e sociale a quello interiore, di ricognizione con il proprio passato e con la propria essenza. La storia è quella di uno psicologo inviato a indagare su quello che sta accadendo all’equipaggio di una base spaziale orbitante intorno al pianeta Solaris, che ha interrotto i contatti con la Terra. Qui, il protagonista scopre che da Solaris emanano forze capaci di materializzare i desideri, le ansie e gli incubi di ciascuno sotto la forma delle persone che li rappresentano meglio (per lui è la moglie, morta suicida anni prima) e che i membri dell’equipaggio sopravvissuti hanno deciso di convivere con i rispettivi “fantasmi”. Niente di nuovo, da Il pianeta proibito a oggi, ma ciononostante Solaris mi era parso un accettabile compromesso con l’estetica attuale degli effetti speciali, una science fiction non eccelsa, ma capace comunque di ricongiungersi a quella misura umana che il cinema americano ha per troppo tempo perso di vista. Ma pochi giorni fa mi è capitato di vedere la versione integrale dell’originale di Tarkovskij che, nonostante i suoi 165 minuti e il passo notoriamente riflessivo dell’autore russo, fa sembrare il film di Soderbergh non solo un saggetto esile esile e vagamente new age, ma anche piuttosto noioso. Perché mentre Tarkovskij, con i suoi tempi dilatati e i suoi interminabili paesaggi terrestri, spaziali e mentali, riusciva a farci entrare in prima persona nelle spire di Solaris, a immergerci nel liquido amniotico del nostro passato e futuro, Soderbergh riesce tutt’al più a mimare un senso di colpa, a illanguidirci su un ricordo. Troppo poco per i suoi tempi morti.
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