Regia di Claude Chabrol vedi scheda film
La frase rivelatrice, quella più volte citata da Chabrol come chiave di lettura del suo film, arriva poco prima della fine: «ll tempo non esiste: c’è un unico presente perpetuo». La dice la vecchia zia Line alla nipotina Michèle, quasi per consolarla di un antico fantasma familiare che la ragazza ha riacceso (e certamente non quietato) con i suoi atti. È il fantasma dell’omicidio che pesa sulla famiglia Charpin-Vasseur (insieme ad altri, meno ossessivi, come incesti, delazioni, tradimenti): un morto si intravede nel primo lungo giro che la macchina da presa compie nei corridoi della dimora di famiglia, e un morto viene a concludere la notte elettorale durante la quale la madre Nathalie Baye vince le elezioni a sindaco. Due morti dei quali non pentirsi (perché si tratta di due individui aggressivi, cattivi, traditori); ma sono gli atti in sé che restano, a oscurare il destino di questa che viene definita “una famiglia a circuito chiuso”; l’unica maniera, non tanto di espiare quanto di liberarsene, è forse tramandarli a qualcun altro. Quieto, educato e agghiacciante, Il fiore del male di Chabrol è la versione stilizzata, asciugata, serenamente e atrocemente pessimistica di tante altre storie di famiglie, destini e province raccontate dal maestro francese. Non c’è più bisogno di intrusioni esterne che vengano a turbare malsani equilibri, né di diseredati che scompaginino armonie borghesi; i “corvi” anonimi sono quelli che ci si è allevati in seno: bastano cinque personaggi che riassumono tre generazioni, e quel tempo profetico che si ripete sempre uguale a se stesso e che si snoda senza soluzione di continuità davanti agli occhi della decana zia Line (la vera protagonista del film, un’esile, dolcissima, volitiva Suzanne Flon, una grande del passato, sia come personaggio che come interprete). Chabrol è arrivato al cuore del suo mondo e del suo stile: niente colpi bassi, il malessere è intessuto nelle tappezzerie e negli abiti bon ton della famiglia, prende corpo dal giardino curato e dall’aria tersa, chiuso nella consapevolezza inossidabile degli occhi di Line. Persino la suspense diventa un elemento di altissima cucina hitchcockiana: è sufficiente far intravedere un cadavere all’inizio del film per tenere sulle spine il pubblico fino alla fine, non tanto sull’identità della vittima, quanto su quella del suo assassino. Un ritratto di borghesia che non si intinge neppure più di nero, ma che ha i colori pastello di una storia tragicamente immutabile.
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